domenica 22 settembre 2013

Servitù e merce ovvero il "lavoro moderno"

Sempre in attesa di trovare tempo ed energie per scrivere un mio post sul "lavoro", oggi vi invito a riflettere su queste forti e tragiche parole di due immensi filosofi.


"Povero, allegro e indipendente! - queste tre cose insieme sono possibili; povero, allegro e schiavo! - anche queste sono possibili - e della schiavitù di fabbrica non saprei dire di meglio, posto che essi non sentano in genere come un'ignominia l'essere adoperati, come accade, a guisa di ingranaggi di una macchina e per così dire come tappabuchi dell'umana inventività.
Che orrore, credere che ciò che nella loro miseria è essenziale, voglio dire la loro impersonale condizione di servitù, possa essere eliminato con un salario più alto!
Che orrore, lasciarsi persuadere che, con un potenziamento di questa impersonalità all'interno del complicato meccanismo di una nuova società, la vergogna della schiavitù possa essere trasformata in virtù! Che orrore, avere un prezzo per il quale non si è più una persona, ma si diventa un ingranaggio. Siete voi i cospiratori, nell'attuale imbecillità delle nazioni, che vogliono soprattutto produrre il più possibile e arricchirsi il più possibile?
La vostra causa sarebbe di presentare il conto di risarcimento: per le grandi somme di valore interiore che vengono buttate via per un tale scopo esteriore! Dove sta allora il vostro valore interiore, se non sapete più che cosa significhi respirare liberamente? Se non avete, neanche un poco, in vostro potere voi stessi?"
                                                                                           Friedrich Nietzsche, Aurora





"Venne infine un tempo in cui tutto ciò che gli uomini avevano considerato come inalienabile divenne oggetto di scambio, di traffico, e poteva essere alienato; il tempo in cui quelle stesse cose che fino allora erano state comunicate ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite ma mai acquistate - virtù, amore, opinione, scienza, coscienza, ecc. - tutto divenne commercio. E' il tempo della corruzione generale, della venalità universale, o, per parlare in termini di economia politica, il tempo in cui ogni realtà, morale e fisica, divenuta valore venale, viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore"
                                                                                                   Karl Marx, Miseria della filosofia



P.s. sul tema, denuciato da Nietzsche, dell'essere un ingranaggio vi invito a leggere questo vecchio post

sabato 7 settembre 2013

La misura del lavoro

Sicuramente agli amici che mi conoscono personalmente e che hanno la pazienza di seguirmi su questo blog sarà risultato strano che io non abbia trattato, se non indirettamente (vedi qui, qui, qui e qui), un tema come quello del "lavoro" al quale sono estremamente sensibile.
Nelle more di trovare tempo ed energia per concedergli il giusto spazio, voglio condividere con voi delle splendide riflessioni di Andrea Tagliapietra che ho avuto il piacere di leggere, quali citazioni, nel libro "La natura oltre la storia" di Marco Bruni.

"Ecco allora che la centralità moderna del lavoro dev'essere misurata, ossia deve rifare i conti praticamente e teoricamente con l'idea della fine. Si tratta cioè di sottoporre il lavoro ad una misura come resistenza ontologica alla manipolazione illimitata. E' necessario, sia dal punto di vista dell'uomo come essere finito, mortale e corporeo, sia dal punto di vista del pianeta come totalità finita, rovesciare il paradigma della produttività infinita che è anche, per certi versi, il paradigma dell'automatismo seriale della macchina che affiora, intellettualizzato e concettualizzato, nel cosiddetto pensiero della tecnica. Oggi è quanto mai indispensabile risemantizzare il lavoro al di fuori della produzione, della fatica e del fare, in direzione della conservazione, della relazione e della cura. Abbandonando il fascino della produttività infinità e della vertigine della performance, l'uomo deve comprendere che il suo fare è determinato dalla qualità e dalla padronanza del più ampio gesto del suo non fare. Il lavoro, di conseguenza, dev'essere la misura asintotica di un fare di meno, nella prospettiva di quel non fare affatto che è proprio della contemplazione, là dove felicità e saggezza si danno convegno. Del resto, il compito del lavoro, sin dall'inizio dell'avventura umana, non è stato quello di trasformare il mondo, nè perciò distruggerlo, bensì quello di renderlo amico e familiare, ovvero di abitarlo. E' questo, forse, l'unico modo per avere un futuro."  [1]



[1] Icone della fine. Immagini apocalittiche, filmografie, miti - Andrea Tagliapietra - Ed. Il Mulino