sabato 17 dicembre 2011

O' Spred

 












A Napoli ognuno vive in una inebriata dimenticanza di sè.
 Accade lo stesso anche per me. Mi riconosco appena     
  e mi sembra di essere del tutto un altro uomo.                
Ieri pensavo : "O eri folle prima, o lo sei adesso".            
Wolfgang Goethe - Viaggio in Italia 



Ormai la notizia sembra certa, confermata da più fonti.
Mentre nelle botteghe di San Gregorio Armeno sono già in bella mostra le statuine del Primo Ministro Monti e di Berlusconi con annessa valigia e cartello "Mi dimetto subito", fra poche ore o al massimo pochi giorni, sulle bancarelle (naturalmente abusive) di tutta Napoli arriverà la nuova "botta", appositamente costruita in fucine disseminate nella periferia della città, dove la norma è che tutto sia rigorosamente non a norma, per festeggiare la dipartita di questo nefasto 2011.
La nuova creazione si chiamerà o' spred.
Finalmente questa parola, che da mesi è entrata nel lessico corrente di tutti gli italiani senza che se ne sappia effettivamente il significato, avrà un suo senso.
Fonti ben informate dicono che non si tratterà della solita "bomba", che negli scorsi anni è stata chiamata  il "Pallone di Bin Laden", la "Capata di Zidane", "Ratzinger", la "Bomba di Maradona"; ma di un fuoco di artificio che salirebbe e scenderebbe in cielo lasciando scie luminose e che, in ossequio alla crisi, costerà solo 50 euro.
Allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre Napoli si riempirà, per l'ennesima volta, di luci e suoni.
Anche quest'anno ci saranno sorrisi, abbracci, ambulanze che sfrecceranno in tutta la città, risate, mani insangiunate, gioia, ferite, lutti, follia e pace.
Nel ventre di Napoli, ombelico del mondo, per pochi istanti, la coltre di fumo lasciata dai fuochi e dai botti, che avvolgerà la città come una fitta nebbia, non sarà altro che l'ombra di un Dio antico che torna a guardare il suo mondo...l'ombra di Dioniso.



giovedì 8 dicembre 2011

Il Mercato illogico

















Ricordo, che quando ero bambino, andavo spesso con mia madre al mercato.
A Castellammare di Stabia, dove sono nato, c'erano due mercati, uno ortofrutticolo e l'altro invece che si era creato in diversi vicoli stretti di una zona della città dove c'erano negozietti e bancarelle che vendevano abbigliamento, prodotti per la casa, tessuti e tante altre cose.
Di entrambi ricordo gli odori, i colori, i suoni, le persone. In quegli spazi c'erano emozioni, sensazioni, amicizie, antipatie, furbizie, altruismo, soldi, contrattazioni (estenuanti per risparmiare qualche lira), in poche parole c'era prepotentemente l'essere umano.
L'uso attuale della parola mercato, nonostante fortunatamente continua ad esistere in ogni città come luogo fisico, ci rimanda ad un'astrazione, un non-luogo, dove vigono regole e leggi che non solo influenzano i prezzi dei prodotti ma sono riuscite a controllare la totalità della vita umana decidendo, in ultima istanza, dell'esistenza di persone, gruppi, Stati.
La fiabesca teoria economica da secoli alimenta un Mito, un sogno di logica e ragione che avrebbe finalmente liberato l'uomo da tutte quelle fastidiose pulsioni  per permettergli di scambiare i prodotti del suo sudore e del suo ingegno massimizzando gli utili e minimizzando i costi.
Il mercato sarebbe quel non-luogo dove tutto acquista un suo proprio equilibrio.
Purtroppo, e non soltanto per l'immane crisi attuale, sappiamo bene, provandolo quotidianamente sulla nostra pelle, che tutto questo non è assolutamente vero.
Non si offendano gli economisti e tutti i fautori di un liberismo estremo ma il mercato non ha altro che un effetto di amplificazioni.
Nei momenti di crisi la amplifica così come amplifica il benessere nei momenti di fiducia in una visione positiva dell'uomo, della società, del mondo.
C'era molto più equilibrio e consapevolezza nel mercatino di quando io ero piccolo dove sia il compratore sia il venditore andavano a casa veramente soddisfatti e dove la contrattazione tutto era fuorchè semplice calcolo ma scambio simbolico, immaginale, emozionale, valoriale.
Quando sentiamo in noi stessi e negli altri una reazione di sbigottimento o di rabbia alle parole "è il mercato che lo vuole" o "il mercato ha deciso così" non cadiamo nella trappola di definirci ignoranti, stupidi o incompetenti perchè c'è un motivo molto profondo a queste reazioni.
Per tentare di comprendere come siamo arrivati a questo punto e per cercare di capire il senso che abbiamo dato a comportamenti che ci stanno portando sull'orlo di un baratro possiamo farci aiutare dalla teoria delle azioni non-logiche di Pareto senza però disdegnare di accennare anche alla sua biografia che ci permette di evidenziare alcuni paradossi che caratterizzano il nostro esistere quotidiano.

venerdì 2 dicembre 2011

Pensieri radenti




Stamattina, radendomi davanti allo specchio, ho ripensato all'ottavo punto del "Programma bioeconomico minimale" dell'economista eterodosso Georgescu-Roegen.
"Dovremmo curarci per liberarci di quella che chiamo la circumdrome del rasoio, che consiste nel radersi più in fretta per avere più tempo per lavorare a una macchina che rada più in fretta per poi aver più tempo per lavorare a una macchina che rada ancora più in fretta, e così via, ad infinitum. (...) Dobbiamo renderci conto che un prerequisito importante per una buona vita è una quantità considerevole di tempo libero trascorso in modo intelligente". [1]
Molti economisti, tecnici, politici, premi nobel, emeriti giornalisti ci dicono che il problema dell'Italia non è tanto il debito pubblico ma la mancata crescita.
Se riusciremo, quindi, ad invertire il trend, probabilmente, ci potremo lasciare alle spalle questa drammatica crisi anche se non so quanto saremo presentabili esteticamente tutti con barbe folte e lunghe.


[1] Bioeconomia - Verso un'altra economia ecologicamente e socialmente sostenibile - N. Georgescu-Roegen - Ed. Bollati Borringhieri

sabato 12 novembre 2011

Mezzo pieno....mezzo vuoto


Sembra proprio che non ne possiamo fare a meno.
Ogni qualvolta abbiamo dinanzi, metaforicamente, un bicchiere riempito a metà un impulso ci spinge sempre a vederlo o definirlo mezzo pieno o mezzo vuoto.
Si tratta di un'energia pre-razionale che ci impone sempre una scelta.
Si attiva un istinto che ha bisogno di definire un valore, positivo o negativo, a ciò che vediamo, sentiamo, ad un pensiero, ad un sentimento, ad un oggetto, ad un altro essere umano.
Spero non vi sembri eccessivo ma, in fondo, si tratta, probabilmente, di una delle forme più limpide di istinto di sopravvivenza.
L'uomo è comparso su questo minuscolo pianeta, ai confini del cosmo, circa 7 milioni di anni fà e nel suo mutare, nella sua immane lotta contro la morte per preservare la sua esistenza, ha sviluppato la possibilità di ordinare, gerarchizzare per poter tentare di controllare ciò che per sua natura non può essere controllato (l'incedere della vita).
Ho utilizzato il termine mutare perchè lo preferisco ad evolvere, termine che sicuramente suonerebbe meglio e al quale siamo molto più abituati, ma che, almeno per me, ingloba un senso finalistico che non mi entusiasma.
Naturalmente non sono così presuntuoso da escludere un fine a tutto, ma ritengo che rimarcarlo deformi la percezione che noi abbiamo del mutamento, nel momento in cui  esso si manifesta, e lo sleghi da un tutto al quale è partecipe.
Ritornando al nostro famoso bicchiere c'è anche da ricordare che, a volte, basta spostarsi di pochi chilometri e il mezzo pieno diventa, agli occhi di altri uomini, mezzo vuoto e viceversa.
Inoltre, come ben sappiamo, nelle diverse epoche storiche un valore negativo si è tramutato in positivo a seconda delle culture, dei costumi, delle leggi.
Per finire, ma non di secondaria importanza, sappiamo benissimo, perchè lo proviamo quotidinamente sulla nostra pelle, che un'impressione di mezzo vuoto ci può portare a non vedere l'importanza del mezzo pieno, ricordandoci la nostra endemica fallibilità.
Forse bisognerà aspettare altri mutamenti o ritornare ad uno stato primordiale, splendidamente ipotizzato da Rousseau, per riuscire a vedere il bicchiere contemporaneamente mezzo pieno e mezzo vuoto.
Questo non risolverà tutti i nostri problemi ma credo che riesca a depennare, dalla lunga lista, qualcuno che da sempre inficia il nostro esistere.

mercoledì 9 novembre 2011

Guernica



Non lo credevamo possibile,
ma ci siamo trovati, nostro malgrado,
a vivere nella Guernica di Picasso.

Gli opposti si dibattono in uno spazio angusto,
luce della ragione e ferocia del Minotauro;
uomini che si trascinano
e donne che alzano le braccia al cielo.

Possiamo scegliere l'istinto
o una luce più ampia,
ma la nostra è una responsabilità da Titani.

Noi siamo un quadro vivente
e dipingiamo il tempo sui muri
con colori invisibili.

Noi dipingiamo per i posteri.

                                                                                   Giorgia Zanotto
                                                                                   (mia moglie)

martedì 8 novembre 2011

Voti 308 - Spread 496

Trilussa
LA NINNA NANNA DE LA GUERRA
(1914)

 Ninna nanna, nanna ninna,
er pupetto vò la zinna:
dormi, dormi, cocco bello,
sennò chiamo Farfarello
Farfarello e Gujermone
che se mette a pecorone,
Gujermone e Ceccopeppe
che se regge co le zeppe,
co le zeppe d'un impero
mezzo giallo e mezzo nero.
Ninna nanna, pija sonno
ché se dormi nun vedrai
tante infamie e tanti guai
che succedeno ner monno
fra le spade e li fucili
de li popoli civili
Ninna nanna, tu nun senti
li sospiri e li lamenti
de la gente che se scanna
per un matto che commanna;
che se scanna e che s'ammazza
a vantaggio de la razza
o a vantaggio d'una fede
per un Dio che nun se vede,
ma che serve da riparo
ar Sovrano macellaro.
Chè quer covo d'assassini
che c'insanguina la terra
sa benone che la guerra
è un gran giro de quatrini
che prepara le risorse
pe li ladri de le Borse.
Fa la ninna, cocco bello,
finchè dura sto macello:
fa la ninna, chè domani
rivedremo li sovrani
che se scambieno la stima
boni amichi come prima.
So cuggini e fra parenti
nun se fanno comprimenti:
torneranno più cordiali
li rapporti personali.
E riuniti fra de loro
senza l'ombra d'un rimorso,
ce faranno un ber discorso
su la Pace e sul Lavoro
pe quer popolo cojone
risparmiato dar cannone!

domenica 6 novembre 2011

La distanza

Una delle conclusioni alle quali si arriva, parlando della crisi economica attuale, siano esse discussioni in famiglia, al bar, nei social network, nelle manifestazioni di piazza, è l'inaccettabile risoluzione dei nostri problemi demandata a istituzioni (BCE, FMI, Banca Mondiale, istituzioni di controllo dei mercati, ecc.) che si sono arrogati un Potere senza che questo sia stato delegato da tutti noi.
A mio avviso tutto ciò nasconde un percorso più tortuoso e sfuggente ma che credo sia indispensabile mettere in evidenza.
Partiamo da molto lontano.
Eraclito (535 a.C. - 475 a.C.) scrisse in uno dei suoi enigmatici frammenti "Polemos è padre di tutte le cose, di tutte re".
Polemos si traduce con guerra, conflitto ma, per sfumare le immagini brutali che ci assalgono al solo sentir pronunciare questi termini, preferisco, in questa sede, tradurlo con opposizione.
Inevitabilmente il nostro esistere, per manifestarsi, deve opporsi all'Altro. Solo attraverso questa opposizione noi siamo e tale opposizione può esistere solo attraverso una distanza.
E' in questa distanza, non solo intesa come spaziale ma psicologica, simbolica, che si vengono a determinare le nostre relazioni e dalle quali scaturisce non solo un Noi ma si forma e determina un Io.
E' in una dialogica* fra coinvolgimento e distacco (N. Elias) che si viene a formare quella che possiamo definire società, qui intesa come l'insieme delle interrelazioni fra tutti noi che col tempo si formalizzano e permettono il nascere delle istituzioni.
Quindi non si tratta di un'unica distanza ma di una molteplicità di distanze che si tramutano in un legame sociale complesso.
Simmel notava che noi non siamo legati all'altro da un solo filo e la molteplicità dei fili non è altro che un insieme di distanze relative che produce e riproduce il legame sociale.
"Lo spazio non è un contenitore. Viene continuamente creato dall'uomo nelle sue funzioni e nei suoi significati. (...) L'ideologia tardo-moderna ha voluto risolvere il problema degli spazi così come ha risolto il problema del tempo: oggettivandone il significato e facendone uno strumento di razionalizzazione e di ordine dell'attività collettiva. (...) L'altro perciò è visto come mediatore, come strumento, come funzione dei nostri bisogni. (...) Lo vogliamo inserito perfettamente nella nostra rappresentazione oggettiva di prestazioni e controprestazioni in funzione dei nostri fini. La sua umanità scompare in funzione della sua utilità strumentale. (...) Così si è indebolita quella fiducia orientata direttamente sull'altro, dalla quale si componevano spazi e distanze, per il fatto che la cultura moderna ha orientato questa fiducia, anzichè sugli individui, sui meccanismi astratti delle sue istituzioni" [1] (Mongardini)
E' questo, a mio parere, un punto cruciale del grande disagio dell'epoca tardo-moderna o, come preferisco definirla io, postmoderna.
Le grandi istituzioni finanziarie ed economiche mondiali rappresentano il punto più alto di questa razionalizzazione e oggettivazione alla quale siamo giunti in questi nostri tempi.
Sono divenuti veri e propri non-luoghi (M. Augè).
Ciò determina che, accanto al problema molto sentito della rappresentatività, si aggiunge un problema profondo di distanza e spazialità andata oltre i confini immaginabili e controllabili da noi uomini.
Anche per questo motivo alla globalizzazione imperante si contrappone un nuovo localismo ancora acerbo e in divenire che, sappiamo bene, può essere fucina, in negativo, di nazionalismi e razzismo.
Non lasciamoci, però, trarre in inganno dalla distanza materiale che divide noi tutti dalle istituzioni e sforziamoci di interpretarla, anche e soprattutto, come distanza simbolica, psicologica, sociale.
Quello che accade nelle istituzioni, ormai, ci appare totalmente slegato da ciò che noi viviamo quotidianamente.
L'eccesso di razionalizzazione e ordine perseguito dall'uomo moderno ha finito per creare spazi svuotati di senso, dove vige una funzione spesso demandata ad esperti.
Seguendo la splendida metafora dei fili di Simmel, mi spingo a dire che è come se questi fili avessero perso totalmente elasticità o, se preferite, fossero arrivati ad una tensione estrema che fa perdere all'insieme, che possiamo definire società, una indispensabile plasticità.
Al posto della famosa gabbia di acciaio (M. Weber) siamo imprigionati in una ragnatela di acciaio.

giovedì 3 novembre 2011

Il mio blog

Leggendo i commenti e chiacchierando con amici su questo mio blog è sorta in me l'esigenza di meglio specificarerne il senso e la natura.
Da sempre in me è innata un'attenzione alle cose che mi circondano andando sempre oltre all'evidente, alle parole, al puro gesto, al puro atto.
Istintivamente ho sempre sentito la presenza di un oltre che ho cercato di non estromettere dalla mia vita.
Noi tutti viviamo nell'ovvio (v. post del 14/09/2011), nello scontato, la maggior parte dei nostri gesti, delle nostre parole sono per noi chiare e limpide eppure nascondono un universo di senso e di significato che non sempre è così evidente come crediamo.
Io sono stato sempre, istintivamente, attento a questo universo sfuggente e a tratti oscuro e mai ho lasciato che le cose scivolassero nella mia vita senza tentare di osservarle, annusarle, sentirle.
Da sempre ho pensato che non esistono risposte certe e nette alle mille domande che ci poniamo.
Non mi è mai interessata la risposta ma il cammino che da  una domanda ti porta ad essa per riposare un attimo e ripartire per altri sentieri.
Per tale motivo, da anni, ho intrapreso un percorso di studi stanco e saturo delle semplificazioni e delle moralizzazioni che ci assalgono quotidianamente.
Ho iniziato con autori dal pensiero eterodosso, a tratti radicale, e ho continuato assecondando la mia sete in svariati campi (sociologia, filosofia, antropologia, fisica, psicologia, ecc.) trovando in ognuno di essi pensatori dallo sguardo penetrante che mi hanno aiutato a dare una forma più compiuta a pensieri e sensazioni da sempre esistenti in me.
Da qualche tempo, proprio in concomitanza con la lettura del "Metodo" di Morin (che consiglio a tutti) e della conoscenza della cosiddetta "Sfida della complessità" o "Teoria della complessità", mi sono imbattuto nelle lezioni on-line di sociologia del prof. D'Andrea* che mi hanno permesso di trovare una chiave di lettura al mio modo di guardare al mondo.
Da una parte lo sforzo di osservare i fenomeni in una chiave et-et, quindi includente, proprio perchè le nette antinomie, che spesso guidano la nostra vita, sono, per la maggior parte, nostre costruzioni o convinzioni e dall'altra il concetto di contraddittoriale che, come trovate specificato nel piccolo vocabolario incluso nel blog, sta a significare, nell'uso metaforico, un'opposizione che non può essere superata da sintesi successive ma permane generando energia.
Quindi, in questo blog, non troverete altro che miei pensieri e sensazioni che cerco di modellare e di esprimere tenendo conto di questi due concetti per me chiave.
Questo non significa non prendere posizione, come penso si sia notato in alcuni post, ma nello sfumare opposizioni per permettere di esaltare uno sguardo includente e tollerante e, permettetemi, più umano, nel bene e nel male.
Quindi, laddove la scrittura tradirà il pensiero, vi prego di perdonarmi e ringrazio tutti quelli che, con pazienza, vogliono accompagnarmi in questo cammino.


* Le lezioni del prof. D'Andrea le trovate sul sito http://www.sociologica.it/

domenica 30 ottobre 2011

Il ritorno del popolo



                                                                                       "Quando passa il gran signore,
                                                                                         il saggio villico fa un profondo
                                                                                         inchino e silenziosamente
                                                                                         scorreggia"
                                                                                         Proverbio etiope [1]

                                                                                        "E poì la gente,
                                                                                          perchè è la gente che fa la storia, 
                                                                                         quando si tratta di scegliere e di andare,
                                                                                         te la trovi con gli occhi aperti,
                                                                                         che sanno benissimo che cosa
                                                                                         fare"
                                                                                         La storia - Francesco De Gregori




"Il re è nudo" e quel che è peggio, per lui, parafrasando una famosa battuta di Woody Allen (Dio è morto e anche io oggi non mi sento tanto bene), il re non gode di buona salute.
D'altronde non poteva essere altrimenti visto che il re, il principe, il presidente, il capo, il politico non sono altro che figure laicizzate del "Potere divino".
Ora bisogna capire se morirà di morte naturale o se ci sarà qualcuno che avrà il coraggio di staccare la spina.
Se guardiamo alle epoche storiche passate c'è sempre stato chi ha avuto tale coraggio: Il Popolo.
In questi nostri tempi tragici vi è il ritorno, appunto, del popolo.
Esso è sempre stato visto con sdegno e sospetto da intellettuali, accademici, burocrati, politici "per due ragioni essenziali. Da una parte perchè il popolo si preoccupa senza vergogna di quella che è la materialità della vita; di tutto ciò che è prossimo, potremmo dire, in opposizione all'ideale e al differimento del piacere. Dall'altra perchè sfugge al gran fantasma del numero, della misura, del concetto, che è da sempre quello della procedura teorica".(Maffesoli) [2]
In ogni nostro gesto, parola, pensiero, per quanto razionalmente finalizzato, c'è sempre un'eccedenza, una parte che sfugge a qualsiasi comprensione e che nel suo vibrare ci permette di percepirla, intuirla ma mai concettualizzarla (in un certo senso, in essa, possiamo vedere un'altra forma dei residui teorizzati da Vilfredo Pareto).
Si tratta di un'energia arcaica, primordiale, una potenza, una fonte alla quale si ritorna per rivitalizzarsi.
E' scritto nell'Ecclesiaste: "I fiumi ritornano alla sorgente per scorrere di nuovo".
Il popolo, o quello che definiamo con questo termine, nel bene o nel male, o come direbbe Nietzsche al di là dal bene e dal male, rappresenta, a mio parere, questa eccedenza.
Le effervescenze che si vivono quotidianamente attraverso la musica, lo sport, il ritorno del sacro, l'attenzione alla natura (ecologia), l'attenzione al nostro corpo sono tutte forme di neotribalismo (Maffesoli) che si coagulano nella massa, nel popolo.
Troppo facilmente, a mio parere, sono tacciate di effimero o di vuoto, come accade, ad esempio, alla moda ( il testo di Simmel La moda rappresenta bene come essa non sia solo una forma di conformismo ma una tensione che permette, allo stesso tempo,  al soggetto di esprimersi fondendosi ad un gruppo e distingursene individualmente).
Ripeto c'è sempre un'eccedenza, quello che può variare è il suo manifestarsi, il suo essere ombra o luce.
Le ultime manifestazioni degli indignados in tutto il mondo rappresentano bene questa energia popolare.
Si badi bene, se domandi ad uno dei manifestanti perchè protesta ti risponderà per il lavoro, contro la precarietà, per la democrazia, contro la politica, per i diritti e tantissime altre cose giustissime.
Ma se chiedi loro, e se lo chiediamo a noi stessi, che cosa è la democrazia, la politica, il lavoro, i diritti le risposte saranno sicuramente varie e balbettanti.
Giorgio Gaber scrive, con fredda ironia, nel testo "La democrazia": "Io, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita".
Questa, però, non è una debolezza.

sabato 29 ottobre 2011

Storie di zingari



Scena tipica da fermata al semaforo rosso.
Un bimbo di 7-8 anni si avvicina alla macchina per chiedere qualche spiccio.
Mia moglie, come sempre fà, gli dona un euro.
Il bimbo lo guarda ed esclama: "Un euro!!!" poi si fruga nelle tasche e porge a mia moglie qualche moneta dicendo: "Il resto".
Naturalmente non l'abbiamo preso e ci siamo guardati stupiti e increduli pieni, ancora, della felicità degli occhi del piccolo.
Che strano mondo!!
Il resto, il superfluo te lo restituiscono chi ha poco o niente e non chi ha tutto.....

lunedì 17 ottobre 2011

15 ottobre 2011

Il romanzo delle stragi

"Io so.
 Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di golpes istituitasi a sistema di protezione del potere). 
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. 
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. 
Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di golpes, sia i neofascisti autori materiali delle prime stragi, sia, infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti. 
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969), e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974). 
Io so i nomi del gruppo di potenti che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei colonnelli greci e della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il 1968, e, in seguito, sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del referendum. 
Io so i nomi di coloro che, tra una messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neofascisti, anzi neonazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine ai criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). 
(…)
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killers e sicari. 
Io so tutti questi nomi e so tutti questi fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che rimette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il "progetto di romanzo" sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il 1968 non è poi così difficile.
Tale verità - lo si sente con assoluta precisione - sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio. (…)
Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi. A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.
Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi. Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi - proprio per il modo in cui è fatto - dalla possibilità di avere prove ed indizi.
Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi.
Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi.
Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia. 
All'intellettuale - profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana - si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici.
Se egli vien meno a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito (come se non si aspettasse altro che questo) al "tradimento dei chierici". Gridare al "tradimento dei chierici" è un alibi e una gratificazione per i politici e per i servi del potere.
Ma non esiste solo il potere: esiste anche un'opposizione al potere. 
(…)
La divisione del paese in due paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l'altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività.
Inoltre, concepita così come io l'ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un Paese nel Paese, l'opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere.
Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch'essi come uomini di potere.
Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch'essi hanno deferito all'intellettuale un mandato stabilito da loro. E, se l'intellettuale viene meno a questo mandato - puramente morale e ideologico - ecco che è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore.
Ora, perché neanche gli uomini politici dell'opposizione, se hanno - come probabilmente hanno - prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpes e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono - a differenza di quanto farebbe un intellettuale - verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch'essi mettono al corrente di prove e indizi l'intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com'è del resto normale, data l'oggettiva situazione di fatto.
L'intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento.
Lo so bene che non è il caso - in questo particolare momento della storia italiana - di fare pubblicamente una mozione di sfiducia contro l'intera classe politica. Non è diplomatico, non è opportuno. 
Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che - quando può e come può - l'impotente intellettuale è tenuto a servire.
Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso non pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l'intera classe politica italiana.
E lo faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi "formali" della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista.
Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico - non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento - deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi.
Probabilmente - se il potere americano lo consentirà - magari decidendo "diplomaticamente" di concedere a un'altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon - questi nomi prima o poi saranno detti. Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori). Questo sarebbe in definitiva il vero colpo di Stato."

La violenza scatenata nella manifestazione di Roma ha lasciato in tutti noi un grande senso di amarezza e tristezza.
Parlandone in famiglia ho ripensato all'ormai famoso articolo, publicato sul Corriere della Sera il  14 novembre del 1974 col titolo " Che cos'è questo golpe?", di Pier Paolo Pasolini conosciuto come "Il romanzo delle stragi" (del quale ho riproposto un estratto).
Anche se inquadrato in un momento storico particolare, penso che le parole dell'immenso intellettuale vadano ben oltre tale momento.
La storia repubblicana del nostro Paese è costellata di pratiche segrete e occulte che tendevano, con tutti i mezzi possibili, alla conservazione del "Potere" raggruppando sotto tale vessillo organizzazioni e uomini che, formalmente, sarebbero dovuti essere agli antipodi e di come questi violenti accadimenti abbiamo avuto una possibile verità storica, quasi mai processuale, dopo decenni e grazie al lavoro di pochi temerari (giornalisti, magistrati, intellettuali, politici).
Quindi cari giovani, cari anziani, cari lavoratori, cari disoccupati, cari precari, care Forze dell'ordine, non dimenticate mai, in qualunque manifestazione o nell'assolvimento di vostri doveri, le parole di Pasolini e, soprattutto, non dimenticate mai la "particolare" situazione in cui ha vissuto e, credo, viva il nostro Paese.
Forse la mia è una forzatura...forse è un'esagerazione....forse è la solita visione complottista....forse...forse...forse...


Povera patria
(Battiato)
Povera patria!
Schiacciata dagli abusi del potere
di gente infame, che non sa cos'è il pudore,
si credono potenti e gli va bene
quello che fanno;
e tutto gli appartiene.
Tra i governanti,
quanti perfetti e inutili buffoni!
Questo paese è devastato dal dolore...
ma non vi danno un po' di dispiacere
quei corpi in terra senza più calore?
Non cambierà, non cambierà,
no cambierà, forse cambierà.
Ma come scusare
le iene negli stadi e quelle dei giornali?
Nel fango affonda lo stivale dei maiali.
Me ne vergogno un poco, e mi fa male
vedere un uomo come un animale.
Non cambierà, non cambierà,
sì che cambierà, vedrai che cambierà.
Voglio sperare
che il mondo torni a quote più normali
che possa contemplare il cielo e i fiori,
che non si parli più di dittature
se avremo ancora un po' da vivere...
La primavera intanto tarda ad arrivare.

giovedì 13 ottobre 2011

L'ingranaggio

 











L'ingranaggio
(Gaber-Luporini)


Un ingranaggio.
Un ingranaggio.

Un ingranaggio così assurdo e complicato
così perfetto e travolgente.
Un ingranaggio fatto di ruote misteriose
così spietato e massacrante.
Un ingranaggio come un mostro sempre in modo
che macina le cose, che macina la gente
sì, sì anch’io!
Sì, anch’io…
Anch'io devo andare sempre avanti
senza smettere un momento
devo andare sempre avanti
e lavorare, lavorare, lavorare
e continuare a lavorare, lavorare, lavorare
e non fermarsi mai.

E non fermarsi mai
e non fermarsi mai
e avere dentro il senso
che non sei più vivo
e faticare tanto
trovarsi con un vecchio amico
e non saper che dire.
Capire che non ho più tempo
per il riso e il pianto
saperlo e non aver la forza
di ricominciare.

Non è che mi manchi la voglia
o mi manchi il coraggio
è che ormai son dentro
nell'ingranaggio.

Ricordo quelle discussioni
piene di passione
di quando facevamo tardi
dentro a un'osteria.
L'amore, l'arte, la coscienza
la rivoluzione
sicuri di trovar la forza
per andare via.

Non è che mi manchi la voglia
o mi manchi il coraggio
è che ormai son dentro
nell'ingranaggio.

L'ingranaggio.
Questo ingranaggio così assurdo e complicato
così perfetto e travolgente.
Quest'ingranaggio fatto di ruote misteriose
così spietato e massacrante.
Quest'ingranaggio come un mostro sempre in moto
che macina le cose, che macina la gente
sì, anch'io, devo andare sempre avanti,
senza smettere un momento
devo andare sempre avanti
e lavorare, lavorare, lavorare
e continuare a lavorare, lavorare, lavorare
e non fermarsi mai!

E non fermarsi mai
e non fermarsi mai
e ritornare a casa
silenzioso e stanco
senza niente dentro
appena il cenno di un sorriso
senza convinzione.
La solita carezza al figlio
che ti viene incontro
mangiare e poi vedere il film
alla televisione.

Non è che mi manchi la voglia
o mi manchi il coraggio
è che ormai son dentro
nell'ingranaggio…

Sono anni che considero l'opera di Giorgio Gaber il più  pregnante e lucido trattato socio-antropologico dell'Italia dagli anni '60 agli anni '90.
Ascoltando e rivedendo i suoi spettacoli, il suo "Teatro-canzone", nelle sue parole, nella sua mimica, nella sua musica vedi passare dinanzi a te gli uomini che hanno vissuto i tempi che egli racconta.
Ma non si tratta solo di un semplice racconto anzi, attraverso il suo corpo smilzo, la sua faccia che di per sè è una maschera teatrale perfetta, quegli uomini sono stati portati in carne ed ossa sui palchi che Gaber ha calcato.
La sua opera è il tipico esempio di quanto la forma d'arte, qualsiasi essa sia,  può rappresentare nel miglior modo possibile l'esistenza umana.
Questo brano, incluso nell'album del 1972 Dialogo fra un impiegato e un non sò, mi è ritornato in mente rileggendo il saggio dell'economista Georgescu-Roegen L'economia politica come estensione della biologia [1], testo tratto da una conferenza tenuta dall'autore nel 1974 all'Università di Firenze.
Scrive, in apertura, Georgescu-Roegen:
"L'uomo, nella sua continua lotta per comprendere che cosa è e come funziona la natura, ha sempre cercato sostegno in qualche particolare fede epistemologica, qualche particolare dogma scientifico. Una successione di dogmi scientifici ha contrassegnato l'evoluzione del pensiero umano con periodi di mode epistemologiche e continuerà così anche in futuro. In ciascuno di questi periodi, gli scienziati non solo si sono sforzati di accumulare prove a favore del dogma dominante, ma lo hanno anche considerato servilmente come l'unica fonte di fertile ispirazione. Un esempio illuminante di questo culto per i dogmi è dato dalla scienza economica, che è giunta a maturazione proprio nel momento in cui il dogma meccanicistico si trovava al suo apogeo".
 In queste parole è ben chiaro il punto di attacco dal quale Georgescu-Roegen svilupperà la sua Bioeconomia, la netta antitesi con il pensiero economico classico e la sua fede nel meccanicismo e nelle teorizzazioni matematiche che, come ben afferma il prof. Bonaiuti nella prefazione al libro, continua a sopravvivere al giorno d'oggi in virtù degli stretti legami con l'ideologia neoliberista, e il recupero del pensiero biologico coniugato alle straordinarie scoperte in termodinamica.
Cercherò, per quanto mi sia possibile, di chiarire il nucleo della teoria bioeconomica.
Il pensiero di Georgescu-Roegen fu fortemente influenzato, come egli stesso chiaramente ammette nei suoi scritti, da un affermazione di Alfred Marshall secondo il quale il metodo più adatto, per comprendere i processi economici, è "più lontano da quello fisico (meccanico) e più affine a quello biologico", e dall'osservazione di Alfred Lotka secondo la quale gli esseri umani sono sostenuti da due tipi di organi: gli organi endosomatici, di cui essi sono dotati dalla nascita, e gli organi esosomatici, cioè quelli da loro prodotti e utilizzati.
Questi strumenti esosomatici sono soggetti a una legge ereditaria affine a quella di tipo biologico in quanto ogni generazione successiva erediterà la struttura esosomatica della precedente e, inoltre, l'estendersi dell'evoluzione biologica all'evoluzione esosomatica ha dato all'uomo la padronanza della terra.
Ma questa evoluzione esosomatica ha spinto l'uomo a vivere in società sempre più organizzate in quanto la produzione di tali strumenti non poteva essere più gestita dai membri di una piccola comunità (famiglia, clan,tribù) e da ciò, secondo Georgescu-Roegen, nasce anche il fattore di divisione sociale fra controllori e controllati, fra coloro che possiedono tali strumenti e coloro che non ne hanno.
Mi preme qui aggiungere che questa evoluzione esosomatica ha naturalmente una sua ripercussione sulla nostra esistenza ancora più profonda.
Gli oggetti che ci circondano invadono anche la sfera immaginale, emozionale, psichica ridefinendo le  percezioni e le rappresentazioni sia di noi stessi sia dell’Altro (qui inteso in modo estensivo anche come natura e come oggetti e strumenti creati dall’uomo).
E’ essenziale, secondo me, soffermarci su questo.

giovedì 29 settembre 2011

Impressioni di settembre



"E' volato anche settembre!!"
Questa è la frase di esordio che il barista mi ha rivolto mentre aspettavo al banco il solito caffè della mattina.
Da questa frase, nei pochi minuti in cui sono stato lì in sua compagnia, sono partite le solite considerazioni sul tempo che passa e sulla vita che vola.
Eppure dietro a queste solite conversazioni, che sembrano ripetersi all'infinito fra noi uomini, a pensarci bene c'è molto di più.
Noi non gli diamo nessun peso e quel che è peggio non le considerano nemmeno schiere di studiosi, perchè le ritengono quisquilie popolari non degne di studio, ma esse nascondono tutta una serie, allo stesso tempo, di interrogativi e spiegazioni che noi tutti diamo al nostro esistere.
Evitando di inoltrarmi in speculazioni filosofiche o scientifiche, di cui sarei un indegno interprete, ciò che voglio condividere in questo blog è un'impressione, che mi è entrata dentro, riflettendo sul tempo.
Per renderci conto di esso noi non possiamo fare altro che oggettivarlo, misurarlo, fermarlo.
E' impossibile "vivere" in presa diretta il nostro essere nel tempo così solo una festa di compleanno, la fine di una stagione, l'incontro con una persona che non vedevamo da anni, ci fà rendere conto del suo trascorrere.
Inoltre siamo soliti ricordare di un accaduto solo l'inizio, la fine o un suo particolare momento come se tutti gli istanti  che sono trascorsi in esso non avessero legami.
Eppure è proprio l'insieme di questi istanti che si coagula e rende "reale" e "unico" quell'accaduto.
Si ripropone qui, in altra veste, nuovamente "il letto di Procuste" (vedi post del 14/08/11), la riflessione simmeliana su Vita e Forma (v. post del 12/08/11) e l'infinita, e mai risolta, dicotomia tra soggettivo e oggettivo.
Sembra quasi che possiamo dirci contemporaneamente "fuori e dentro il tempo".
Ora vi lascio perchè il "tempo" di questo post è finito...
Ma come può essere "finito" il tempo?
Oh no!!!! Sto ricominciando....
Speriamo che domani il barista mi auguri solo: "Buona giornata!!"

sabato 24 settembre 2011

L'antipolitica

Il termine antipolitica è entrato prepotentemente nel nostro lessico quotidiano.
A volte è usato per affermare una pigrizia, un'assenza o una passività a volte una netta contrapposizione alla sfera politica del nostro essere "società".
In entrambi i casi l'uso che viene fatto è comunque negativo.
Volendo, però, sfuggire ad una semplicistica polemica contro le tante parole, spesso volgari, che le "anime belle" (giornalisti, politici, professionisti della comunicazione, accademici, burocrati) pronunciano quotidianamente, vorrei proporre un percorso che permetta, a mio parere, di sfumare i toni esasperati ed esaltare un'"energia interna" che anima le mille "tribù" rappresentanti di questa vituperata antipolitica, siano essi movimenti, comitati di quartiere, gruppi studenteschi, associazioni ecologiste, ecc..
Il mio intento non è di esprimere un giudizio di valore, al quale sarei istintivamente portato, ma di evidenziare questa "energia interna" aiutandomi con concetti che formano il nucleo centrale del pensiero di Maffesoli.
Inizierei partendo dalla riflessione del sociologo francese sulle diverse libidines (desideri profondi che guidano l'azione umana).
Al predominio della libido dominandi (brama di potere e controllo su noi stessi e sul mondo) e della libido sciendi (energia mirante alla conoscenza), di norma sempre alleate in quanto dominare è conoscere e viceversa, si contrappone la libido sentiendi (energia mirante a sentire, a provare che si alimenta di una prossemia sempre più evidente).
Maffesoli parla di una reviviscenza di un'erotica sociale, un orgiasmo diffuso (libido sentiendi) che, appunto, non può essere concepita da una libido dominandi/sciendi per le quali, in forma parossistica, importa il potere, il politico, il controllo, l'ordine per indirizzare l'uomo a quella società perfetta, versione laica della "Città di Dio" giudaico-cristiana.
Questo connubio fra libido domindandi e sciendi esprime un'energia rivolta ad un futuro prossimo raggiungibile attraverso un altro mito moderno: "il Progresso senza fine" legato a doppio filo ad una crescita economica illimitata.
La sclerotizzazione della forma-istituzione (politico/economica/tecnologica), esplosa con la modernità, innesca, inevitabilmente, un ritorna ad un'energia "ctonica" (terrestre) che si interessa a ciò che si sente, che si prova, che si respira.
Alla società che si è rivolta verso "la Storia da fare" subentrano comunità che consumano energia creando e ricreando una socialità appannata da decenni, se non secoli, di "Progresso" (la gabbia d'acciaio di Max Weber).
Maffessoli scrive:
"Così, nei nostri paesi democratici, ciò che le anime belle chiamano sviluppo dell'antiparlamentarismo (aggiungo io dell'atipolitica), è forse solo una resistenza nei confronti della libido dominandi che anima la vita pubblica, o ancora, una saturazione del gioco politico che è considerato solo in virtù di ciò per cui conserva un interesse: le sue performance teatrali". [1]
Quando la divisione tra il nostro vissuto quotidiano e la politica, che dovrebbe esserne una sua espressione, si rende incolmabile si riattiva il livello profondo della potenza " che deve permettere di superare la pesantezza delle costruzioni economiche e sociali e così facendo di ristrutturare una nuova totalità che lo Stato razionalizzatore, o ogni altra istituzionalizzazione, aveva troppo irrigidito" [2]
"E' questa opposizione fra il potere estrinseco e la potenza intrinseca su cui bisogna riflettere (...) cosa che ci obbliga a configurare la saturazione del potere (del politico) nella sua funzione proiettiva e l'emergere di quella potenza che muove in profondità la molteplicità delle comunità sparse, frammentate (...) da parte mia, vi vedo una struttura antropologica che, attraverso il silenzio, l'astuzia, la lotta, la passività, l'umore o la derisione, sa resistere con efficacia alle ideologie, agli insegnamenti, alle pretese di coloro che intendono dominare o fare la felicità del popolo" [3]
Si badi bene che, in questo mio argomentare, il fine, lo scopo, l'oggetto per il quale ci si riunisce in comunità, anche se dall'esterno sembra essere essenziale, ha un'importanza secondaria (sia esso la lotta per la salvaguardia della sopravvivenza delle balene, la petizione per l'illuminazione di una strada pubblica, la raccolta firme per un referendum).
Quello che mi preme evidenziare è un sentire comune, un'"energia intena", un "divino sociale" (Durkheim), un appartenenza alla "comunità di destino" (Morin), un vitalismo che cozza contro una statica, una ragione astratta, un "potere istituito" che vive e si alimenta solo di se stesso.
Assistiamo, così, alla sostituzione di un sociale razionalizzato con una socialità a dominante empatica.(Maffesoli)
Il disordine che sembra invadere le nostre strade è anch'esso una risposta ad un ordine che ormai opprime non armonizzando più un sociale che per sua natura è dinamico.
"In ciascuno di noi, e quindi nella società, c'è una dimensione maledetta, una parte di male che deve essere in qualche modo gestita. Nell'idea del potere c'è anche la cinica condivisione di questa dimensione malefica. La politica infatti ha la funzione di assorbire, gestire ed eventualmente ridistribuire il male presente nella realtà. Oggi però il potere pretende di incarnare solamente il bene. Vuole essere buono e morale. Si presenta come una potenza del bene che impone il suo ordine dappertutto (...) ma così facendo, procede per espulsione, escludendo qualsiasi elemento esterno che rischia di rimmetterlo in discussione (...) il mondo naturale scompare" (Baudrillard)
Nelle assemblee, nella roccalta firme, nelle manifestazioni, nei gruppi che si formano sui social-netwok possiamo, inoltre, vedere il ritorno del "rito".
Il "rituale" che, come ormai è stato evidenziato da  schiere di antropologi e sociologi, non è finalizzato, nel senso di orientato verso uno scopo, ma ripetitivo e rassicurante permette alla comunità di ricordare il suo essere "corpo" esaurendo e rigenerando un'energia che unisce.
Quindi, per concludere, in questo nostro difficile tempo, dobbiamo, a mio parere, cercare di essere attenti e ricettivi agli umori, ai sapori, a quello che si sente nell'aria, ai sentimenti, barbarici o angelici che siano, abbandonando facili moralismi e razionalizzazioni ai quali il pensiero occidentale è da sempre incline.


[1] [3] Il tempo delle tribù - Maffesoli - Ed. Guerini studio
[2] Estratti tratti da Un mondo a spirale - Fabio D'Andrea - Ed. Bevivino editore

mercoledì 14 settembre 2011

L'ovvio e Procuste

Noi tutti, inconsapevolmente, siamo immersi nell'ovvio.
Nel nostro vivere quotidiano i gesti, le parole, gli oggetti, i valori, i significati, le azioni sono per noi istantaneamente decodificabili.
Se vedo una sedia non penso ad altro che ad essa. Sarei folle se mi mettessi a studiarla per cercare di capire cosa sia.
E' semplicemente una sedia!!!!
Eppure questo passaggio, che appunto è per noi "ovvio", nella realtà non lo è.
Il nostro stare nel mondo, inevitabilmente, deriva da una visione di esso. Visione che è condivisa con miliardi di essere come noi e che ci permette, appunto, di vivere quindi questa "visione del mondo"(Weltanschauung) o sapere condiviso ci permette di mettere in forma il mondo stesso e di conoscerlo.
Un mito greco ci aiuta ad esaltare questo pensiero dal quale derivano tantissimi altri sentieri che cercherò di battere in seguito.
Procuste, nella versione riportata da Karl Kerényi, si trovava sul monte Coridallo, sul quale conduceva la via Sacra che da Eleusi andava ad Atene.
Egli era nominato "il tenditore" e possedeva un letto sul quale faceva stende gli ignari viandati e poichè il letto era sempre troppo grande egli doveva stirare colui che vi giaceva.
Si affermò più tardi che egli possedesse due letti uno grande e uno piccolo e obbligasse i viandanti più piccoli a stendersi sul letto grande e viceversa per torturarli mostrusuosamente.
Fu sconfitto da Teseo che lo fece stendere nel suo stesso letto e lo uccise nella stessa maniera con la quale uccideva i passanti liberando la via Sacra da tutti i pericoli mortali.
Il letto di Procuste rappresenta simbolicamnete la nosta visione del mondo.
Come "il tenditore" noi inglobiamo la realtà nel nostro letto, stirandola quando è troppo piccola o amputandola quando straripa, per poterla contenere in noi stessi.
Non è un atto barbarico. La nostra conoscenza non può fare altrimenti pena l'impensabile incapacità di esistere dell'uomo.
Questo può apparire limitante ma comprendendone l'essenzialità ci può aiutare a considerare in una nuova luce tutti i nostri istintivi timori di fronte al nuovo, al diverso, al non "ovvio" e magari spingerci ad una maggiore, se mai complicatissima, tolleranza.
Inoltre Teseo sconfigge Procuste con la stessa sua arma e questo ci porta a considerare come le stesse visioni del mondo o paradigmi non siano eterni ma modificabili nel tempo e come non esista una conoscenza perfetta e unica.
Un ultimo aspetto che mi preme sottolineare è come nel mito Procuste si trovi sulla strada che da Eleusi porta ad Atene.
I misteri eleusini sono la più alta manifestazione religiosa dell'antica Grecia, riti iniziatici avvolti da un grande interesse per gli studiosi.
Il fatto, quindi, che Procuste e il suo letto siano a metà strada fra questi luoghi religiosi e Atene in chiave simbolica può spingere la nostra riflessione, come invita il prof. D'Andrea, a intravedere un ostacolo o un occlusione fra la sfera mistico-religiosa e la sfera politico-civile quasi a dimostrare il nostro inevitabile bisogno di un letto di Procuste per il nostro vivere insieme e come lo stesso letto ci limiti a qualsiasi ulteriore possibilità di trascendenza.

(Per approfondimenti si ascolti il file audio della lezione del Prof. D'Andrea di Sociologia Generale del 30/09/2010 sul sito Sociologica.it)

mercoledì 24 agosto 2011

I Papa-boys

 Si è conclusa da pochi giorni la Giornata Mondiale della Gioventù, XXVI edizione dell'incontro internazionale dei giovani cattolici.
Come ogni anno me ne sono totalmente disinteressato, nonostante l'invasione mediatica, ormai lontano e anche estremamente critico nei confronti dell'istituzione Chiesa.
Nel "La trasfigurazione del politico" di Maffesoli, però, come spesso mi capita nella lettura del sociologo francese, il suo pensiero e le sue visioni hanno spinto il mio naturale disinteresse nei confronti di tale raduno a trasformarsi in un'attenzione riflessiva.

Scrive Maffesoli:
" Senza alcuna provocazione...non è detto che tutti i partecipanti (ai raduni religiosi) siano d'accordo con il magistero e la dottrina...è probabile che molti, senza troppo preoccuparsi di quello che si dice, partecipino per cantare, vibrare, emozionarsi insieme, toccarsi, stabilire dei contatti, entrare in relazione, che molti vogliano vivere un bel momento, un'opportunità, per sentirsi parte di un corpo collettivo....Il giorno successivo non saranno necessariamente gli apostoli che si crede che siano, ma tuttavia resterà, nell'attesa di un nuovo raduno, il ricordo della fratellanza calorosa che li ha uniti per un istante...La festa offerta dall'istituzione, in effetti, serve a tutt'altro; il collettivo approfitta dello spettacolo, "ruba", un'occasione di effervescenza che siamo sempre pronti a cogliere....Al tempo vuoto e omogeneo del concetto storico, si sovrappone l'opportunità dell'evento, l'intensità della durata, la voglia, in qualche modo tragica, di vivere un istante eterno"
( Pag. 242, 243, 245 - La trasfigurazione del politico - Ed. Bevivino)

La visione maffesoliana permette, all'osservatore, di non cadere in un facile moralismo e di slegarsi da pregiudizi estremamente limitanti e inoltre ci suggerisce una nuova possibilità di interpretare l'attuale e i suoi momenti che troppo semplicisticamente e pomposamente vengono classificati in una visione "aut-aut" tipica della modernità. (bene-male; buono-cattivo; giusto-sbagliato)
Dobbiamo spingerci in un territorio nuovo dove la riduzione, la sintesi, il contraddittorio cede il passo al "contraddittoriale"*.
Certamente tanti di quei giovani, riuniti quest'anno a Madrid, erano lì per fede, per partecipate ad una giornata dedicata al loro sentire religioso ma sicuramente vi erano altri non lontani dall'immagine di Maffesoli e probabilmente, tutti insieme, porteranno nelle loro vite un "istante eterno", un'esperienza estetica collettiva che si dissolve in un potente hic et nunc senza attendere ne desiderare un nuovo fiorito futuro o un nuovo paradiso.


*per il significato del termine vedere voce nel "piccolo vocabolario"

sabato 20 agosto 2011

La mano...."invisibile"

In conclusione del precedente post, scrivendo di Adam Smith, mi è ritornato alla mente un pensiero, che naturalmente come mio solito non avevo appuntato, ma che, fortunatamente, il mio cervello aveva riposto in un cassetto pronto a ritornare in vita al minino accenno.
Inoltre, terminato il post, avevo ripreso la lettura de "La trasfigurazione del politico" di Maffesoli e, qualche pagina dopo il punto in cui l'avevo lasciato in precedenza, anche il sociologo francese faceva riferimento ad Adam Smith.
Si vede che è arrivato proprio il tempo di esternare questo mio folle pensiero.
Vediamo se riesciamo a dargli una forma.
Tutto parte dal contrasto fra l'immagine della "mano invisibile" di Smith e la mano creatrice di Giordano Bruno.
Partiamo da Smith. Il padre dell'economia classica usa l'immagine di "una mano invisibile" per spiegare il mercato e il meccanismo della concorrenza.
Gli uomini e i gruppi sono legati essenzialmente da rapporti di scambio nei quali ognuno persegue il massimo soddisfacimento limitando gli sforzi e i costi ed è appunto il meccanismo del mercato e della concorrenza a permettere la prevalenza, nell'insieme di queste micro-azioni di natura squisitamente egoistica, di un interesse collettivo.
Una "mano invisibile" che opera ed equilibria tutto al di là delle intenzioni dei singoli.
Bruno, invece, riprendendo un concetto già presente nella filosofia presocratica, evidenzia che l'uomo si divverenzia dall'animale non solo per l'ingegno ma anche per opera della mano.
L'immagine della mano in Bruno rappresenta la conquista dell'uomo di rendersi artefice della costruzione del proprio mondo. Si evidenzia così un'immagine forte dell'attività umana, del lavoro, della possibilità dell'uomo di costriure, trasformare il reale per adeguarlo a lui stesso.
Quello che mi ha fatto riflettere su questa dicotomia di immagini è soprattutto il fatto che noi viviamo un epoca nella quale la mano creatrice e materiale di Bruno ha lasciato il posto alla mano invisibile di Smith.
Ad insaputa di Smith la sua "invisibilità" ha invaso, paradossalmente, la nostra realtà.
Facciamo un esempio attualissimo. Noi tutti siamo immersi in una crisi economica gravissima e ogni giorno leggiamo sui quotidiani che "le borse hanno bruciato centinaia di miliari di euro".
Eppure, pensandoci bene, dov'è la mano che accende il fuoco, prende i soldi e li brucia?
Non c'è fumo, non c'è calore, non c'è mano.
Mi si obbietterà che questa è solo una metafora ma purtroppo non è proprio così.
Quella mano invisibile che brucia soldi invisibili in roghi invisibili esiste viste le conseguenze nella nostra vita con aziende che chiudono, la disoccupazione che cresce, i servizi statali che saranno via via rimaneggiati.
Altro esempio.
Io faccio un lavoro impiegatizio e se a fine giornata mi si chiede che cosa ho fatto mi rendo conto che tra le mie mani o dinanzi a me non c'è niente.
Durante la giornata ho scritto numeri e parole al computer, ho attivato procedure informatiche, ho stampato fogli di cata (uniche cose materiali) e sicuramente il mio lavoro determinerà conseguenze nella vita delle persone ma comunque tra le mie mani non c'è niente.
Il frutto del mio lavoro è una "conseguenza".
Noi uomini di questa società postmoderna siamo riusciti nell'impossibile, rendere il notro operato immateriale ed invisibile per goderne i frutti o penare per gli errori con il nostro corpo, con la nostra vita.
Ma la vera domanda è: "quando si tratterà di fermare o controllare quest'"invisibilità" ne saremo veramente capaci?"