mercoledì 28 novembre 2012

Dire no...dire sì

Leggendo il libro "Antropologia filosofica" della professoressa Pansera mi è tornato alla mente il post "Mezzo pieno...mezzo vuoto" pubblicato il 12/12/2011 al quale si potrebbe tentare di dare un nuovo tono e una nuova coloritura.
L'antropologia filosofica moderna nasce, come disciplina, nella prima metà del XX secolo e prende le mosse dall'esigenza di cogliere e pensare l'essere umano nella sua interezza cercando di creare un ponte fra filosofia e scienza che consenta di riallacciare un dialogo che, allora come adesso, sembra difficoltoso se non addirittura impossibile.
Questa esigenza è fortemente sentita perchè, come scrive Max Scheller, padre fondatore di tale disciplina insieme a Helmuth Plessner e Arnold Gehlen, "noi siamo la prima epoca in cui l'uomo è divenuto completamente e interamente problematico per se stesso; in cui egli non sa più che cosa è, ma nello stesso tempo sa anche che non lo sa". [1]
L'aspetto peculiare dell'uomo, nel pensiero di Scheller, è la possibilità di "dire no", di trascendere la realtà data.
Scrive infatti: "paragonato all'animale che dice sempre sì alla realtà effettiva, anche quando l'abborrisce e fugge, l'uomo è colui che sa dir di no, l'asceta della vita, l'eterno protestante contro quanto è solo realtà (...) l'uomo è l'eterno Faust, la bestia cupidissima rerun novarum, mai paga della realtà circostante, sempre avida di infrangere i limiti del suo essere ora-qui-così, sempre desiderosa di trascendere la realtà circostante" [1]
Partendo da questa capacità di "dire di no", dalla capacità di negare e superare le costrizioni biologiche, Plessner distingue l'uomo dagli altri esseri per la sua posizione "eccentrica".
Mentre l'animale vive al "centro" del proprio ambiente naturale l'uomo, attraverso l'autoriflessione e l'autocoscienza, è in grado di trascendere il centro biologico e di acquisire una "posizione eccentrica".
"Per l'uomo trovarsi in una posizione eccentrica vuol dire decentrarsi (...) solo distanziandosi da sè, ponendosi - come dice Plessner - alle proprie spalle, l'uomo può vedere se stesso e la propria posizione nel mondo, quel centro provvisorio che occupa e da cui poi, in quanto essere eccentrico, si decentra." [2]
Pertanto " è tipico della natura umana non poter vivere nell'immediatezza di una natura già data, ma solo nella mediazione che trasforma la natura in cultura: l'uomo è essenzialmente un essere culturale". [2]
Per Gehlen il "dire no", "l'eccentricità" nascono dalla peculiare carenza che contraddistingue l'uomo dovuta ad una dotazione organico-istintuale primitiva incompiuta e non specializzata.
Per tale motivo, a differenza dell'animale che ha un ambiente, l'uomo ha il mondo.
La sua carenza, non permettendo un immediato adattamento all'ambiente, lo induce, attraverso l'azione, alla continua creazione di un mondo adatto alla sua esistenza.
"Egli vive , per così dire, in una natura artificialmente disintossicata, manufatta e da lui modificata in senso favorevole alla vita. Si può dire che egli è biologicamente condannato al dominio della natura." (Gehlen) [1]
La capacità di azione e di intervento sono rese possibili da quello che Gehlen definisce "principio di esonero" che si sostanzia in quel meccanismo che permette all'uomo, attraverso schemi di comportamento, di esonerarsi dagli oneri e dalle continue risposte agli stimoli ambientali e alle pulsioni interne.
Il ricco pensiero di Scheller, Plessner e Gehlen, che in questo post ho estremamente sintetizzato, ci rilascia un'immagine dell'uomo che permette, a mio parere, di definire la nostra attuale posizione eccentrica e al contempo di evidenziare l'estremo lavorio che continuamente noi tutti facciamo per costruire un mondo che permetta la nostra esistenza.
Ma, allo stesso tempo, questo pensiero, portato agli estremi fino all'essere "condannati al dominio della natura" di Gehlen, può continuare a perpetrare un antropocentrismo tipico del pensiero dell'uomo sull'uomo che finisce per mascherare quella hybris (tracotanza) e quell'incapacità di percepire e definire un limite e di rendere la nostra azione manipolatrice armoniosa all'ambiente.
Forse è per tale motivo che al "dire di no" di Scheller, istintivamente, mi è venuto di contrapporre il "dire sì" di Nietzsche.
Quel "dire sì alla vita" che si sostanzia nella ripresa dell'amor fati che Nietzsche descrive come l'atteggiamento proprio del super-uomo che accetta entusiasticamente, fino a desiderarlo, il carattere casuale e arbitrario degli eventi che compongono la vita invitando, nello Zarathustra, gli uomini a "tornare alla terra".
Naturalmente il pensiero di Nietzsche risulta estremo e a tratti incomprensibile per tutti noi abituati come siamo a vivere ricercando e creando continuamente, con il nostro agire e pensare, un ordine che ci dia sicurezza, ma, seppur estremo, ci evidenzia un tratto umano che persite in tutti noi e che spesso è surclassato da un discorso sull'uomo teso a mascherarlo e nasconderlo.
La rappresentazione "marmorea" dell'uomo occidentale del novecento si sta frantumando in mille pezzi che raccolgono altrettante istanze spesso violentate da quelle funzioni e ruoli che ci siamo autoimposti.
Forse è per tale motivo che, in questi nostri tempi di crisi, si affianca e si mescola all'homo sapiens, all'homo faber e all'homo oeconomicus nuovamente l'homo dionysiacus che uno sguardo ben attento può cogliere nell'attenzione all'ambiente, in una nuova ricerca di un piacere estetico, di un nuovo contatto con la natura, in un ritorno ad un bisogno "epidermico" dell'Altro. (tutti temi trattati da anni da Michel Maffesoli)
Queste istanze contrapposte, che non si sciolgono in una nuova sintesi, sembrano tenersi in vita l'un l'altra evidenziando una figura di un "uomo-contraddittoriale" o "homo complexus".
D'altronde la stessa eccentricità di Plessner può essere interpretata come una frattura insanabile e, permettendomi l'ardire, come una immagine nitida dell'uomo-contraddittoriale.
Infatti, per Plessner, l'uomo "vive al di qua e al di là della frattura, come psiche e come corpo e come unità neutrale psicofisica di queste due sfere. L'unità, però, non copre il doppio aspetto, non lo lascia emergere da sè, non è essa il terzo che concilia l'opposizione, che guida oltre le sfere opposte, non forma nessuna sfera autonoma. Essa è la rottura, lo iato, il vuoto passaggio della mediazione, che per il vivente stesso equivale all'assoluto doppio carattere e al doppio aspetto di corpo e psiche, nel quale esso vive." [1]
Edgar Morin, invece, attraverso il suo sterminato e straordinario lavoro di anni, ci invita a pensare la nostra irriducubile complessità.
"L'umano è un essere nel contempo pienamente biologico e pienamente culturale, che porta in sè questa unidualità originaria. E' un super e un ipervivente: ha sviluppato in modo inaudito le potenzialità della vita..
(...) Il XXI secolo dovrà abbandonare la visione unilaterale che definisce l'essere umano a partire dalla razionalità (homo sapiens), dalla tecnica (homo faber), dalle attività utilitaristiche (homo oeconomicus), dagli obblighi della vita quotidiana (homo prosaicus). L'essere umano è complesso e porta in sè in modo bipolarizzato i caratteri antagonisti:

sapiens e demens (razionale e delirante)
faber e ludens (lavoratore e giocatore)
empiricus e imaginarius (empirico e immaginario)
oeconomicus e consumans (economico e dilapidatore)
prosaicus e poeticus (prosaico e poetico) [3]

Concludendo, parafrasando Nietzsche che definiva l'uomo come "un cavo teso fra l'animale e il super-uomo", direi che l'uomo danza, a volte goffamente a volte in maniera sublime, su questo cavo teso, sospeso su quella frattura insanabile di cui parlava Plessner, ancorato ai due estremi ad un "dire no" e ad un "dire sì" o, se preferite, ad un "mezzo pieno" e un "mezzo vuoto".



[1] Estratti di Scheller, Plessner e Gehlen tratti da Antropologia filosofica - Maria Teresa Pansera - Ed. Bruno Mondadori
[2] Antropologia filosofica - Maria Teresa Pansera - Ed. Bruno Mondadori
[3] I sette saperi necessari all'educazione del futuro - Edgar Morin - Ed. Cortina Raffaello


mercoledì 5 settembre 2012

La tecnica...ti mette le ali!!!!!!



"Dopo l'azione esercitata con la tecnica sulla natura,
l'uomo si trova a dover subire la reazione del
procedimento tecnico sulla propria esistenza,
che viene inevitabilmente modificata"

Karl Jaspers

"Con il termine tecnica intendiamo sia l'universo dei mezzi (le tecnologie) che nel loro insieme compongono l'apparato tecnico, sia la razionalità che presiede al loro impiego in termini di funzionalità ed efficienza. (...) A differenza dell'animale, che vive nel mondo stabilizzato dell'istinto, l'uomo, per la carenza della sua dotazione istintuale, può vivere solo grazie alla sua azione, che da subito approda a quelle procedure tecniche che ritagliano, nell'enigma del mondo, un mondo per l'uomo. (...) Eppure in questo edificare lavora nascosta una tendenza appena percettibile, ma decisiva. L'uomo, cioè, si adattava alla legge della natura, che continuava a dichiarare immutabile, modificando continuamente l'assetto della natura per adattarla a sé.
(...) Nell'universo delle azioni possibili, la tecnica inaugura quell'agire in conformità ad uno scopo in cui è riconoscibile il tratto tipico della razionalità (...) accade, però, che l'ordine degli stumenti condiziona la scelta dei fini, rigidamente vincolata dalla quantità e qualità dei mezzi a disposizione, con la conseguenza che il perseguimento dei mezzi, senza di cui nessun fine è raggiungibile, diventa il primo fine, per il persegiumento del quale tutti gli altri fini vengono subordinati e , se necessario, sacrificati.
(...) E' questo il modo in cui la tecnica da mezzo si capovolge in fine e, autonomizzandosi dai bisogni, dai desideri e dai motivi che sono alla base dell'azione umana, si pone come il primo bisogno, il primo desiderio e il primo motivo orientante l'azione umana. 
(...) Dire questo significa dire che la tecnica, nella sua espressione moderna, diventa quell'orizzonte ultimo a partire dal quale si dischiudono tutti i campi d'esperienza. Non più l'esperienza che, reiterata, mette capo alla procedura tecnica, ma la tecnica come condizione che decide il modo di fare esperienza.
(...) Per questo diciamo che nella disposizione del mondo e non nella strumentalità va individuata l'essenza della tecnica. E questo significa che la tecnica, nella sua accezione moderna, non è una scienza applicata, ma orizzonte all'interno del quale anche la scienza pura trova la condizione e la destinazione del suo indagare" [1] (U. Galimberti)
Se queste parole possono sembrarvi eccessive, astruse o la solita fantasticheria astratta del filosofo di turno, basta qualche piccolo esempio della nostra vita quotidiana, per comprendere, a mio parere, la portata concreta e lucidamente profonda del pensiero di Galimberti.
Qualche sera fa mia moglie ed io eravamo distesi sul letto e guardavamo la tv quando, improvvisamente, mancò l'energia elettrica per una decina di minuti.
A parte la solita scena tragicomica di camminare a tentoni per casa in cerca di una candela, quando mi ridistesi sul letto, guardandomi intorno, mi resi conto che tutto era come se si fosse fermato.
Vedere spenti tutti i vari marchingegni, che avvolgono il nostro quotidiano, mi provocò, prepotente, la sensazione che il mio stesso "essere" fosse poca cosa, quasi un nulla.
Quasi mi sembrò di non esistere.
In fondo l'energia elettrica è rappresentabile da noi solo come un eterno flusso, un eterno movimento e la sua mancanza sembrò creare una inimmaginabile fissità che è l'antitesi di ciò che sentiamo scorrere, dentro noi e fuori di noi, che siamo soliti chiamare Vita.
Altro esempio, che sicuramente è condivisibile con le tante persone che come me fanno un lavoro impiegatizio, è quando ti rechi in ufficio e, per un guasto qualunque, non funzionano i computer.
Improvviso smarrimento!!! Ti guardi intorno e vedi le facce atterrite dei tuoi colleghi.
Certo, come sempre capita in un ufficio, si potrebbero sistemare le tonnellate di carte che si accumulano quotidianamente, ma tutto ciò è un palliativo.
La verità è che, con i computer che non funzionano, improvvisamente svanisce anche il tuo "lavoro" e sembra non avere senso il tuo essere lì.
Il "lavoro" che tutti noi facciamo, cerchiamo, sogniamo, vogliamo, desideriamo e del quale abbiamo sancito la sua superiorità nell'aricolo 1 della nostra Costituzione, se non funziona un computer, una macchina, improvvisamente svanisce.
Ma questo svanire nasconde, inoltre, subdolamente, un'altra ovvietà che non consideriamo mai.
Il mezzo che non funziona ci  fa rendere conto che, nel capovolgimento di cui scrive Galimberti, il fine ultimo del nosto "lavorare" è far sì che lo stesso mezzo funzioni divenendo noi stessi lo strumento e la macchina il  fine.
Illuminante sintesi, al riguardo, è l'ultima pubblicità della Redbull.
Nell'ultima animazione creata dai pubblicitari si vede tutta l'evoluzione che da un ammasso di cellule, passando per una creatura marina che diventa una creatura terrestre, porta all'uomo (che naturalmente beve la Redbull e....mette le ali!!!).
Nel passaggio, però, fra la scimmia e l'uomo, fateci caso, l'animale raccoglie un ramo da terra e diventa un uomo con la clava.
L'evoluzione dalla scimmia all'uomo avviene nel momento in cui l'animale raccoglie quel ramo e nel suo rapportarsi allo strumento diventa un uomo, che non è rappresentato tutto nudo con la sua bella fogliolina di fico, ma già con una clava (strumento) fra le mani.
L'uomo è già nel suo presentarsi al mondo un essere-tecnico ed è questa la sua essenza.
Quindi più che dire che l'uomo accende il televisore, usa il computer, vola con l'aereo, prende il farmaco, guida l'auto dovremmo pensare e pensarci, mi spingo a dire, come uomo-televisore, uomo-computer, uomo-aereo, uomo-farmaco, uomo-auto.
So bene che tutto questo vi sembrerà eccessivo, abituati come siamo a sentirci soggetti che hanno di contro oggetti, ma la realtà è che questa dualità si fonde in un unico orizzonte che inevitabilmente ci avvolge e ci forma.
Un orizzonte che possiamo definire anche paradigma, Letto di Procuste (v. post del 14/09/2011 ), ovvio, ma che ha un suo limite non oltrepassabile.
Limite che non sappiamo misurare, quantificare ma che persiste e, della cui presenza, sembra che l'uomo moderno abbia dimenticato totalmente la sua esistenza.
Abbiamo dimenticato che Prometeo, che aveva donato la tecnica e il fuoco agli uomini, viene incatenato ad una roccia del Caucaso per l'eternità.
Ma quelle stesse catene non sono solo il tragico supplizio imposto a Prometeo da un Dio malvagio e invidioso (Zeus) ma insite in esse vi è il limite ultimo a quella libertà che la tecnica sembra concedere agli uomini.
La limitazione di strumenti e mezzi nelle epoche antiche, quindi, più che da imputare ad una fase ancora acerba dell'evoluzione umana, come siamo soliti pensarla rinchiusi nel nostro paradigma del Progresso, forse è da imputare ad un riconoscimento del limite rappresentato in miti, tragedie e riti.
Scrive, infatti, Giorgio Colli:
"Agli scienziati moderni non è ancora venuto in mente ciò che era ovvio agli antichi: che bisogna tacere le conoscenze destinate ai pochi, che le formule e le formulazioni astratte pericolose, capaci di sviluppi fatali, nefaste nelle loro applicazioni, devono essere valutate in anticipo e in tutta la loro portata da chi le ha ritrovate, e di conseguenza devono essere gelosamente nascoste, sottratte alla pubblicità. La scienza greca non raggiunse un grande sviluppo tecnologico perchè non volle raggiungerlo" [2]
D'altronde, come ci avvertiva già Aristotele, chi non conosce il suo limite tema il destino.


P.s. se avete trovato questo post pesante e deprimente beveteci sù una bella Redbull che...vi mette le ali!!!

[1] Psiche e techne l'uomo nell'età della tecnica - Umberto Galimberti - Ed. Feltrinelli
[2] Dopo Nietzsche - Giorgio Colli - Ed. Adelphi


mercoledì 15 agosto 2012

L'animale

"L'uomo chiese una volta all'animale: perchè non mi parli della tua felicità e soltanto mi guardi? L'animale dal canto suo voleva rispondere e dire: ciò deriva dal fatto che dimentico subito quel che volevo dire - ma subito dimenticò anche questa risposta e tacque; sicchè l'uomo se ne meravigliò. Ma egli si meravigliò anche di se stesso, per il fatto di non poter imparare a dimenticare e di essere continuamente legato al passato: per quanto lontano, per quanto rapidamente egli corra, corre con lui la catena"

                                                                                                       Friedrich Nietzsche [1]




"Ma l'animale che mi porto dentro
non mi fa vivere felice mai
si prende tutto anche il caffè
mi rende schiavo delle mie passioni
e non si arrende mai e non sa attendere
e l'animale che mi porto dentro vuole te"

                                                                                                       Franco Battiato [2]




[1] Considerazioni inattuali -  Friedrich Nietzsche - tratto da "Psiche e Techne - l'uomo nell'età della tecnica"
     Umberto Galimberti - Ed. Feltrinelli
[2] L'animale - Mondi lontanissimi - Franco Battiato

lunedì 16 luglio 2012

Physis kryptesthai philei


Nella prefazione della Critica della ragion pura Kant fa un elogio della scienza moderna che consiste nel fatto che essa ha imparato che bisogna interrogare la natura non come uno scolaretto interroga la maestra, cioè credendo alla cose che gli vengono dette, ma come un giudice che interroga l'imputato, cioè avendo "noi" le nostre domande da porre, avendo "noi" il nostro sistema razionale e mettendolo "noi" alla prova negli esperimenti che vengono dati.
L'intento di Kant è di riuscire a fare in filosofia quello che la rivoluzione copernicana ha significato per la scienza e per tale motivo egli muove la sua indagine non chiedendosi, come si era sempre fatto, come sono fatte le cose in sè stesse ma come devono essere fatte per venire conosciute da noi.
Invece di partire dal mondo bisogna partire dall' "Io che contempla il mondo".
Cento anni prima della stesura della Critica, Newton dava alle stampe Philosophiae Naturalis Principia Mathematica che sarà considerato da molti come la nascita della fisica moderna nel quale l'immenso scienziato britannico trattava in modo sistematico la meccanica attraverso la geometria e la matematica dimostrando, in modo illuminante, quello che asseriva Galileo: "La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto".
Queste tappe, che ho ricordato, dell'immenso cammino fatto dall'uomo per conoscere il mondo e se stesso, sottendono però un movimento che, nello scorrere dei secoli, si è fatto sempre più equivoco e pericoloso.
L'essere umano è diventato un soggetto che ha di contro oggetti, per poter comprendere e domare si è distaccato sempre più dalla natura che è diventata un agglomerato immenso di enti che l'uomo interroga "come un giudice" usando il linguaggio matematico.
Lo straordinario sviluppo e benessere che si sono creati hanno finito per mascherare una Hýbris (tracotanza, eccesso) che la tecnica esercita nelle nostre vite finendo per far coincidere il bene, il giusto con la soddisfazione di un bisogno, di un desiderio, di un'aspettativa.
Eppure, ad inizio dello scorso secolo, proprio nelle scienze si sono avuti smottamenti tali che avrebbero dovuto ridisegnare totalmente la traiettoria umana.
Il principio di indeterminazione di Heisenberg ne è un esempio.
"Se (...) per vedere una particella subatomica occorre illuminarla, e l'illuminazione, cozzando contro la particella, la devia, ciò che si vede non è la posizione della particella, ma la collisione che ne deriva e che non consente di stabilire la posizione della particella prima della collisione del raggio luminoso richiesto per osservarla. In questo modo, la posizione della particella è un inosservabile, perchè osservabile è la collisione della particella con le condizioni dell'osservabilità. A questo punto non si potrà mai dire se le leggi che si stabiliscono per gli osservabili valgono anche per gli inosservabili,e, in generale, se la natura, provocata o chiamata alla presenza dalle tecniche di osservazione, è la natura che si trattiene nel nascondimento dell'inosservabilità."  [1] (U. Galimberti)
In un colpo solo la tracotanza dell'uomo viene definitivamente dissolta.
Le domande, che come giudici, poniamo alla natura, attraverso la tecnica e usando il linguaggio matematico, non faranno altro che stimolare risposte a quel tipo e modo determinato di domanda e null'altro e anche se questo può essere utilizzato in un nuova tecnica per soddisfare un bisogno umano non ci svincolerà dall'obbligo principale che l'uomo ha nei confronti dei suoi simili e del mondo: la responsabilità dell'uso.
A questo punto la netta divisione fra osservatore e osservato non può più essere mantenuta e "col dissolvimento dell'oggettività uomo e natura non si fronteggiano come soggetto e oggetto, ma le possibilità della conoscenza e il senso della natura sono custoditi e condizionati dalla modalità del reciproco disporsi." [1]
Tutto ciò avrebbe dovuto portare a quella rivoluzione che Kant voleva fosse la sua filosofia ma così non è stato.
Siamo ancora imbrigliati in una "gabbia di acciaio", la tecnica sembra saper facogitare e mascherare qualsiasi nuovo modo di porsi dell'uomo nei confronti del mondo e di se stesso.
Bisognerà ancora attendere, in fondo i tempi dei cambiamenti di paradigmi si contano in secoli e millenni quindi anche se sembra passato tanto tempo dalle rivoluzioni di inizio secolo scorso forse siamo solo all'inizio di una nuova era per l'uomo.
Un nuovo tempo che quando arriverà (se arriverà) non farà altro che ricordarsi che, come ammoniva Eraclito:
"La natura ama nascondersi" (Physis kryptesthai philei).




[1] Umberto Galimberti - Il tramonto dell'Occidente nella lettura di Heidegger e Jaspers - Ed. Feltrinelli




domenica 8 luglio 2012

Attenzione all'asterisco

Venerdì, sul Fatto Quotidiano, è stato pubblicato un articolo dal titolo molto accattivante: "Finanza Tossica".
Mi sono gettato a capofitto nella lettura tralasciando l'asterisco che era accanto al nome dell'autore.
Sono solito, durante la lettura, essere molto attento a questo tipo di simboli (asterischi, numeri) che rimandano a note a piè di pagina ma questa volta mi sono lasciato trarre in inganno dal titolista e ho preferito rimandare alla fine la lettura della nota.
Grave errore!!!!
L'articolo non era niente di eccezionale, anche se ben scritto, era la solita descrizione dei mali della Finanza che, senza offesa, anche mio nipote di 5 anni ormai conosce bene.
La sorpresa era, invece, proprio nella nota, stampata a fine articolo, richamata dall'asterisco, che recitava: "capo economista del Fondo sovrano dell'Oman".
A quel punto non sapevo se ridere o piangere.
Praticamente il Sig. Scacciavillani (autore dell'articolo) è capo economista di uno di quei Fondi sovrani che muovono la Finanza globale dichiarata tossica dal suo stesso articolo.
Per di più, anche gli ingenui sanno bene, questo tipo di Fondi, direttamente controllati dai governi degli Stati, utilizzano la mole impressionante di denaro non solo per investire, semplicemente, in strumenti finanziari, ma attraverso essi, ridefinire i confini dei poteri geopolitici planetari.
Una sorta di nuove armi di guerra per la versione modernissima del più becero imperialismo.
Inoltre la maggior parte di questi Fondi sono creati e controllati da Stati non propriamente famosi per la loro democrazia e libertà (anche se ci sarebbe da discutere tanto sulla democrazia e la libertà dei paesi occidentali) come il caso dell'Oman che è retta dal 1741 da un sultanato.
Non contento, però, con spirito masochistico, sono andato a leggere la biografia del Sig. Scacciavillani sul sito del Fatto.
Praticamente il curriculum di questo signore è  tipico dei tanti "esperti" che inondano di opinioni e di analisi le nostre case attraverso televisioni, giornali e internet.
Credetemi non c'è nessuno di questi signori che non abbia poggiato o continui a poggiare le sue "umane chiappe" su una delle tante "poltrone" dalle quali si decide il destino del mondo e che in pubblico si presenta come il "nuovo" esperto che conosce bene quali sono i mali da combattere e ci aiuta e ci sprona a sconfiggerli seguendo le sue "illuminanti" ricette.
Il sig. Scacciavillani non è da meno.
Le cose che della sua breve autobiografia mi hanno incuriosito, tralasciando il suo passato nel Fondo Monetario, nella Banca centrale europea, nella Goldman Sachs e l'attuale e rispettosissimo incarico nel Fondo Sovrano dell'Oman, sono due.
La prima quando scrive che "più che un cervello in fuga, direi che mi sento una coscienza in esilio".
Da ciò si dedurrebbe che più che essere uno dei tanti italiani andati all'estero per trovare una giusta ricompensa alla loro professionalità che non hanno trovato nel nostro paese lui si sente una coscienza in esilio.
Quindi il problema per noi italiani non è di aver perso un brillante studioso ma una "persona coscienziosa" che avrebbe potuto fare il bene dell'Italia.
Non vorrei sembrare polemico ma, a mio parere, si tratta solo e semplicemente di uno dei tanti "cervelli in fuga" sui quali dovremmo interrogarci per bene, senza falsa ipocrisia, sui vantaggi e gli svantaggi di perdere un certo tipo di studiosi.
L'altra parte dell'autobiografia che mi ha colpito è quando precisa che "ciò che scrivo rispecchia solo le mie opinioni personali e non coinvolge in alcun modo l'istituzione per la quale lavoro".
A questo punto, con molta onesta, dobbiano andare al di là della figura di Scacciavillani (mitigando il giudizio negativo che ho di lui) e pensare a tutti noi.
La sua dichiarazione, che d'istinto può fare solo "incazzare", è invece da analizzare con attenzione.
Nel nostro quotidiano tutti noi ricopriamo ruoli e funzioni che ci impongono, a volte apertamente a volte subdolamente, comportamenti molto difformi dalle nostre idee, dai nostri valori, dalle nostre emozioni.
Eppure, cercando di mitigarli in qualche modo, è rarissimo che ci discostiamo dallo standard che ci viene richiesto nel ricoprire un incarico.
Non si tratta di semplice ipocrisia ma, probabilmente, di spirito di conservazione che, soprattutto nelle nostre attuali società iper-specializzate, ci ha portato ad una inconscia scissione fra quello che si pensa e si prova e il nostro agire quotidiano al punto tale che ci vuole un'enorme lavoro su se stessi per impedire che la nostra soggettività svanisca in un mare di funzioni oggettivate.
Quindi, forse, il vero male di queste continue crisi nelle quali viviamo è la scomparsa di una soggettività che potrebbe e dovrebbe, con incredibili difficoltà, riscoprire la strada che ci allontana dal mondo degli "oggetti" e ci riavvicina al mondo naturale dello stare insieme senza scopi o utilità da perseguire.
Una soggettività che non ingloba lo spirito egoistico tipico del nostro mondo ma riscopre l'unico punto essenziale dal quale poter partire per incontrare e sentire l'Altro e dare senso all'esistere: noi stessi.
Un Io non inteso, in senso moderno, come monade chiusa in se stessa ma come unica forma che abbiamo per tentare di partecipare o percepire quell'essere parmenideo o logos eracliteo che abbiamo smarrito millenni fà.
Ma qua il discorso si fa troppo filosofico quindi vi lascio con un semplice consiglio:
"Attenzione all'asterisco!!!!!!!" 

mercoledì 4 luglio 2012

Il limite

"Nessuno può saltare oltre la propria ombra."

                                                                   Martin Heidegger [1]


[1] Introduzione alla metafisica - Ed. Mursia

mercoledì 30 maggio 2012

Nostos

 
Chi tene 'o mare
s'accorge 'e tutto chello che succede
pò sta luntano
e te fà senti comme coce
chi tene 'o mare 'o ssaje
porta 'na croce
Chi tene 'o mare
cammina ca vocca salata
chi tene 'o mare
'o sape ca è fesso e cuntento
chi tene 'o mare 'o saje
nun tene niente...

Pino Daniele



Dieci anni fà, con il mio amico Davide, facemmo un viaggio in Spagna visitando la regione dell'Andalusia.
Una delle tappe che ci eravamo prefissi era Gibilterra ma, il giorno che da Cadice partimmo in auto per raggiungerla, un terribile temporale ci accompagnò per tutto il viaggio tanto che, stanchi di tutta quell'acqua che cadeva dal cielo, decidemmo di tornare indietro verso l'albergo.
Il cielo verso Cadice si rischiarava chilometro dopo chilometro così, visto che avevamo fame, imboccammo la prima uscita e cercammo un ristorante.
Ci ritrovammo a Tarifa e mentre mangiavamo dei favolosi gamberi, guardando la cartina affissa al muro, mi resi conto che Tarifa era la punta estrema meridionale della Spagna, il punto-limite, della parte europea, dello Stretto di Gibilterra.
A fine pranzo ci recammo in spiaggia e, seduti su un muretto, ci fermammo a guardare il mare.
Quello che avevamo dinanzi non era nè Mediterraneo nè Oceano ma semplicemente Mare.
In quel punto nessun nome che potevamo affibbiargli gli si attaccava addosso. Tutto scivolava via e noi non potevamo fare altro che stare lì a guardarlo.
Quella sensazione di fragilità e di limite ma, allo stesso tempo, di potenza e eterna fertilità ritorna prepotente a vibrare dentro me in questi tempi difficili,  anche se con sfumature diverse, perchè c'è qualcosa di magmatico e di profondo in questa crisi europea.
Un qualcosa che nessuna parola potrà definire e che ha poco a che fare con l'economia, i deficit, i default, i trattati ma che riporta in primo piano una tragica centralità sotterranea (M. Maffesoli) del Mediterraneo e dei suoi popoli.
Un Mediterraneo che è stato abbandonato da secoli al suo destino ritenuto svuotato di quella potenza che aveva impregnato e dato forma alla vecchia Europa.
Per tale motivo l'attuale fallimento greco e l'opposto rigore teutonico rappresentano, in modo paradigmatico, un antico conto da saldare per un Vecchio Continente che ha rimosso i suoi svariati Dei, i suoi multiformi miti, le sue innumerevoli culture a favore di un pensiero unico,meccanico, utilitarista, razionale come una mente che dimentica il suo corpo pensando di poterne fare a meno.
L'antico popolo greco è un "popolo marino più che marinaio. Quale migliore paragone alla speciale intelligenza di questo popolo, del tremolar della marina? Badate: i Greci sono colonizzatori. Sempre stati. Ma colonizzano le spiagge (...) non s'inoltrano. Sanno che a perder di vista il mare, si perde il tremolar della marina: si perde l'intelligenza" (Savinio) [1]
Heidegger, invece, afferma del suo popolo tedesco: "Siamo presi nella morsa. Il nostro popolo tedesco, in quanto collocato nel mezzo, subisce la pressione più forte della morsa; esso è il popolo più ricco di vicini e per conseguenza il più esposto, è insieme il popolo metafisico per eccellenza" .[1]
Lungi da me utilizzare queste affermazioni come possibile sintesi di questi due immensi popoli ma possono rappresentare, con tutti i limiti del caso, due immagini che aprono possibili sentieri di comprensione ben lontani dall'universo economico nel quale questa crisi sembra immersa.
Una possibile differenza consiste, proprio, in "quest'acqua che scivola via (...) , tra un centro de-centrato (Grecia) e un centro (Germania) che vuole organizzare il mondo secondo la sua misura ed è per questo che si sente soffocato. La Germania come centro dell'Europa (...) non conosce l'esperienza del confine che i Greci avevano interiorizzato proprio attraverso la struttura frattale della propria terra , la pervasività del mare". (F. Cassano) [2]
Una vecchia concezione eliodromica del mondo ( "L'Europa è infatti assolutamente la fine della storia del mondo, così come l'Asia ne è il principio"  G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia)  prevedeva che le civiltà, seguendo il movimento del sole, sarebbero nate in Oriente per arrestarsi nel massimo splendore in Occidente.
Ma l'Occidente ha sempre avuto, già insito nel suo nome, il tragico destino al quale è chiamato.
L'Occidente è la terra dove il sole tramonta, dove la luce lascia il posto alle tenebre, dove l'uomo avrebbe dovuto riconoscere e convivere con i suoi limiti.
Ma così non è stato.
L'Occidente si è tramutato in un eterno movimento verso la luce per impedire che essa abdichi al buio.
La luce della fede, religiosa o razionalistica, su cui si fonda tutta la tradizione occidentale, ha iniziato un lungo viaggio senza ritorno e il regime notturno è stato surclassato dal regime diurno (G. Durand).
Così il Mediterraneo è stato abbandonato e l'uomo ha incontrato l'Oceano.
Le colonne d'Ercole sono state frantumate e l'uomo ha perso la costa.
Costa che rappresenta il limite, lo spazio di congiunzione fra Misura e Dismisura che non si sciolgono in una sintesi ma permangono in un eterno contraddittoriale.
Costa come una sorta di "naturale" Porta simmeliana che "diventa allora l'immagine del punto-limite dell'uomo sul quale egli costantemente sta o può stare" ricordando allo stesso il suo "essere-limite che non ha limiti, l'essere confinario che non ha confini", il suo essere destinato in un'eterna opposizione fra Finito ed Infinito perchè "la sua limitazione trova il proprio senso e la propria dignità soltanto in ciò che la porta rende sensibili: nella possibilità di muovere in ogni istante da questa delimitazione verso la libertà". [3] (G. Simmel)
Ma una libertà che non riconosce se stessa, che non riconosce, paradossalmente, il suo limite che la rende valore, è una libertà oceanica che "è possibile solo rovesciandosi in radicale dipendenza dalla tecnica, nello sviluppo illimitato della forma tecnica del mondo". [2]
"Il mare Egeo e il Mediterraneo si limitano invece a separare le terre, fissano una distanza che non è mai dismisura dell'oceano; essi sono una discontinuità forte fra le terre, ma non il loro abbandono senza orientamento (...) le distanze marine dell'Egeo e del Mediterraneo aprono la possibilità di un rapporto, di un contatto, anche se esso può essere feroce e terribile. (...) In questo intervallo che collega, in questa distanza che mette in relazione stanno la gelosa custodia della propria autonomia e la facilità del conflitto, ma anche, stretta ad esse come la pelle, la repulsione verso ogni integralismo". [2]
Ed è su questa stessa spiaggia che, "all'ombra dell'ultimo sole", il Pescatore di De Andrè incontra l'Assassino e con lui "versa il vino e spezza il pane" senza domandarsi se fosse giusto o sbagliato ma semplicemente perchè dinanzi a lui vi era un uomo che aveva sete e fame annullando, in un istante eterno, qualsiasi differenza fra la mano che ha ucciso e la mano che offre la vita.
Ed ora, proprio nel momento in cui tutto il mondo sembra inseguire senza esitazione la via occidentale, proprio nella vecchia Europa, dove questa sogno occidentale è stato creato, esso sembra naufragare sulle sponde di un Mediterraneo antico dove ancora risuonano i ditirambi dionisiaci.
Il paradosso del movimento eliodromico sta proprio nella sua linearità che, percorrendo l'intera sfericità del globo terrestre, ritrova se stesso in un tragitto uroborico (G. Durand), ritrovando intatti gli antichi enigmi e ritrovando dinanzi a se un tramonto che, agli occhi di noi uomini di questo inizio secolo, sembra annunciare un definitivo oblio.
Il nostos (ritorno) non è stato figlio di un bisogno, di un desiderio, di un istinto ma è stato un terribile naufragare.
La crisi economica di questo sistema capitalistico, la mega-macchina tecnologica che sembra avanzare senza più un guidatore, lo sgretolarsi delle nostre società probabilmente stanno mascherando una crisi molto più profonda, una crisi di un pensiero che si è reso astratto ed estraneo anche a se stesso, bisognoso di eterna luce, sia essa donata dalla ragione o dalla fede, incapace di inglobare il buio, la parte del diavolo (M. Maffesoli).
Forse, andando oltre tutti gli stereotipi che da sempre l'hanno incatenato, bisogna riscoprire la centralità del Mediterraneo, luogo mitico dove tutto ebbe inizio e dove tutto si tiene in un flebile ma persistente radicamento dinamico.
"Fino a quando continueremo a ritenere che lo scorrere inevitabile verso Occidente sia l'unico moto possibile del giorno e che il Mediterraneo sia solo un mare del passato, avremo puntato gli occhi nella direzione sbagliata e il degrado che ci circonda non cesserà mai di crescere". [2]


[1] Estratti tratti da Il Pensiero meridiano - Franco Cassano - Editori Laterza
[2] Il Pensiero meridiano - Franco Cassano - Editori Laterza
[3] Ponte e Porta  Saggi di Estetica - George Simmel - Ed. ArchetipoLibri


P.s. il testo della canzone in epigrafe fu scritto e cantato da Pino Daniele nel 1979 da non confondere, rigorosamente,  con l'uomo che, anche se ha le stesse sembianze e la stessa voce, da un ventennio sforna Cd anch'egli col nome di Pino Daniele. Credetemi, sono due persone totalmente differenti.







domenica 13 maggio 2012

Il pensiero del ventre

  Imputato,
  il dito più lungo della tua mano è il medio,
  quello della mia è l'indice,
  eppure anche tu hai giudicato.
  Hai assolto e
  hai condannato al di sopra di me,
  ma al di sopra di me,
                                              per quello che hai fatto,
                                              per come lo hai rinnovato,
                                              il potere ti è grato.
                                                                           (Fabrizio De Andrè)

                                             Bisogna avere un caos dentro di sè
                                             per generare una stella danzante.
                                                                            (Friedrich Nietzsche)


Il post di oggi nasce da un profondo senso di sconforto, di frustrazione, di offesa e per tale motivo troverete in esso un vortice di immagini, sensazioni, emozioni a cui, volutamente, non ho dato forma lasciandolo scorrere libero fra queste poche righe.
Per l'ennesima volta l'Anarchia viene associata alla violenza, ad una "pistola fumante", ad una lista di carnefici da punire.
A differenza di alcune storie passate, quando gli anarchici venivano tirati in ballo dallo stesso Potere per nascondere i tanti regolamenti di conti che venivano perpetrati al suo interno a furia di sangue e bombe (strage di Piazza Fontana), questa volta sono gli stessi "sedicenti" anarchici a passare alle vie di fatto.
L'immagine di questi uomini che segretamente, nascondendosi e mascherandosi, mettono bombe e commettono omicidi è vecchia ed è altrettando vera.
Ma accanto a questa violenza, all'Anarchia come filosofia etico-politica, alle tante battaglie contro lo sfruttamento degli oppressi, all'endemica contrapposizione allo Stato e al Potere,  vi è un'Anarchia più profonda, più intima che percorre, come un fiume carsico, l'intera storia dell'uomo.
Un'Anarchia che mi porto dentro e che vibra come un pensiero del ventre (M. Maffesoli).
E' un'accettazione della caducità umana, un'accettazione della coincidentia oppositorum.
L'anarchico è colui che sente e vive l'assenza di un principio e di un potere assoluto non combattendo per imporre tale assenza agli altri perchè la sola imposizione sarebbe essa stessa un principio.
L'Anarchia non può essere un potere che combatte un altro potere e per tale motivo l'anarchico è eternamente intrappolato in un doppio vincolo (G. Bateson) non potendo affermare l'assenza di principio con un principio.
L'Anarchia è un utopia che vive nella quotidianità, che immaginando mondi futuri vive un hic et nunc eterno.
Per quante regole sociali, culturali, civili possiamo darci e per quante strutture e forme possiamo osservare o costruire nelle nostre società l'agire quotidiano è intriso di anarchismo.
Un'Anarchia anodina, che si mostra in piccoli gesti, che non si arma per combattere guerre ma naturalmente si accorda ad una socialità ctonica che inconsciamente viviamo.
Vi è nel nostro quotidiano un continuo trasgredire le regole facendo in modo che le stesse esistano e donando loro un energia di rinnovamento.
L'Anarchia è un'epifania del movimento, l'attimo prima o l'istante dopo in cui, seguendo la Lebenphilosophie simmeliana, la Vita crea o abbandona la Forma.
L'anarchico è colui che ha sempre la valigia pronta per seguire la Vita nella sua eterna danza.
E' colui che usa il suo corpo e non quello degli altri, che combatte scegliendo come sola e possibile vittima giustificabile se stesso.
Che non accetta di scaricare un caricatore di proiettili su un altro essere umano perchè sà che nessun principio può assolvere una violenza.
Gambizzare l'a.d. Adinolfi, perchè rappresenterebbe il potere del "nucleare" che opprime il mondo e i deboli, è solo brutale violenza.
La battaglia sul "nucleare" verrà vinta da uomini che immagineranno e vivranno il quotidiano in un altro modo.
Per tale motivo, caro amico anarchico, invece di sparare, quando cala la sera e come tutti noi hai bisogno di luce, non premere l'interruttore della corrente elettrica ma accendi una candela e Adinolfi diverrà una delle tante ombre che danzeranno nella tua stanza alla luce di questa eterna fiamma.
In fondo l'Anarchia non è altro che un eterno fuoco eracliteo.

giovedì 10 maggio 2012

L'insostenibile leggerezza delle parole



E' da un pò di tempo che, come ho scritto più volte anche in questo blog, cerco di spronare me stesso e gli altri ad un'attenzione maggiore alle parole che siamo soliti scrivere o pronunciare.
Quest'attenzione non risiede nel trovare i termini "perfetti" ma nel comprendere che essi possono condensare, seppur in modo a volte sfumato a volte netto, un universo di significati, di visioni del mondo, alle quali è tempo che noi tutti dedichiamo maggior cautela.
Oggi questa riflessione è mossa da un articolo apparso sul Corriere della sera dei professori Alberto Alesina e Andrea Ichino (fratello del più famoro Pietro) sull'accordo raggiunto tra i sindacati e il Governo sul pubblico impiego.
Non è l'analisi dei due economisti ad avermi attirato ma l'uso di una parola contenuta nell'articolo.
Nel mettere in evidenza l'eliminazione di regole certe per la "misurazione della performance lavorativa" dei singoli dipendenti e il conseguente eccesso di protezione, i due economisti scrivono:
"Proteggere questi lavoratori contro ogni ragionevole controllo della loro produttività danneggia i cittadini, soprattutto quelli meno abbienti (...) Di tutto questo (regole certe sul controllo della produttività) non c'è traccia nella recente intesa sul pubblico impiego tra Governo e sindacati in cui i consumatori non sono stati rappresentati".
Credetemi, ho riletto più volte il passaggio ma c'è scritto proprio consumatori.
Da ciò deriverebbe che quando vado a chiedere un certificato in Comune, quando un bambino va a scuola, se non mi sento bene e mi reco in ospedale non devo dimenticare di essere un consumatore, un cliente e di conseguenza il maestro, il dottore, l'infermiere, il dipendente comunale sono dei produttori di servizi ed entrambi dobbiamo sottostare alle regole economiche del mercato.
Sbagliando, a detta di Alesina e Ichino, io ho sempre pensato che fossimo persone e cittadini.
Ma, a parte l'amara ironia, questa semplice parola ci mostra tutto un universo di pensiero che purtroppo, almeno per il sottoscritto, continua ad inquinare il nostro vivere insieme.
La deriva dell'ideologia economicista ha, da decenni se non secoli, invaso tutti i campi del sociale determinando una volgare riduzione della complessità sociale che sarebbe governabile con le leggi, da sempre inferme ed estremamente inique, del mercato.
Tutto diventa una merce, tutto ha prezzo, tutti noi siamo consumatori e produttori e null'altro.
Logica conseguenza di questa visione, nel campo dei rapporti tra cittadino ed Istituzioni, è che se il servizio è insufficiente o scadente io vanterei una sorta di "diritto" a ridurre o eludere la partecipazione economica alla mia comunità attraverso il pagamento delle tasse.
Un'aberrazione che periodicamente, cavalcata non solo da sempli cittadini ma da politici, imprenditori, esperti di ogni sorta, viene pronunciata candidamente senza vergogna.
Sarò forse un romantico o un ingenuo ma quando "usufruisco" di un "servizio pubblico" non mi aspetto che funzioni perchè ho "pagato" ma semplicemente perchè sarebbe giusto socialmete, eticamente, culturalmente, umanamente.
E' sarò forse ancora più ingenuo nel credere nella potenza delle parole e che il conflitto fra esse, una sorta di moderna confusione delle lingue di biblica memoria, rappresenta in modo incontrovertibile il cambiamento di paradigma del quale siamo artefici-spettatori ma del cui esito finale ancora non si ha una traccia ben precisa.

lunedì 7 maggio 2012

Nuovi estremismi

In questo giorno nel quale, a Genova, una "vecchia" pistola fumante gambizza un amministratore delegato mentre nelle elezioni in Grecia la destra xenofoba raggiunge percentuali preoccupanti, come già avvenuto in Francia, Olanda e altre nazioni europee, in Italia, nelle elezioni amministrative, trionfa un nuovo tipo di estremista.
E' solitamente un trentenne dalla faccia pulita, acculturato, che usa il web, non porta giacca e cravatta ma nemmeno orridi passamontagna, parla di energie rinnovabili, piste ciclabili, democrazia partecipativa, non usa finanziamenti pubblici, si batte per un economia sostenibile, in tasca, al massimo, ha una tessera di una delle tante associazioni che cercano di migliorare i territori, essere vicino ai più bisognosi e fa parte di uno strano non-movimento capitanato da un vecchio comico mezzo folle che da decenni, prima nei teatri e ora sul web, cerca di risvegliare dal torpore i suoi connazionali parlando di strane cose come la democrazia.
A detta di "politici", giornalisti, esperti in vari settori, questo nuovo estremista può essere molto pericoloso.
Se dovesse veramente riuscire nel suo intento questa nostra strana nazione e strana Europa potrebbero veramente giungere ad un'agognata vita civile e democratica.
Bisogna stare molto attenti!!!!
E' siamo solo all'inizio.

lunedì 9 aprile 2012

La lezione dei neutrini

 E' solo un uomo quello di cui parlo
 del suo interno come del suo intorno
 di quando scivola su se stesso
 di quando scrive come adesso
 della vetta della conquista
 sotto le unghie ha la terra di quando striscia

 E' solo un uomo quello che mi commuove
 che vorrei uccidere e salvare amare e
 abbandonare
 E' solo un uomo ma lo voglio raccontare
 perchè la gioia come il dolore
 si deve conservare
 si deve trasformare
                                                  Niccolò Fabi

                        
Il famoso esperimento per la misurazione dell'oscillazione dei neutrini, che aveva portato alla straordinaria scoperta che gli stessi viaggiavano ad una velocità maggiore della luce, era sbagliato.
Un banale spinotto mal collegato aveva determinato questo errore di misurazione.
Alla fine a pagarne le spese è stato il fisico Antonio Ereditato, portavoce della collaborazione Opera, che il 30 marzo ha rassegnato le dimissioni dall'incarico.
Scrivo di questa storia non per le enormi implicazioni che una scoperta del genere avrebbe potuto avere sulla nostra vita ma per porre un'attenzione su un'evidenza che, nonostante sia talmente lampante, ci ostiniamo a mascherare a noi stessi.
Lo scienziato è un uomo.
Sembra un'affermazione banale ma non lo è.
Nel nostro immaginario ricoprire certi ruoli, certi incarichi determina, in automatico, un'aura da "semi-dio".
In fondo, consci delle nostre debolezze e imperfezioni, caricare altri uomini di capacità "fuori dalla norma" risponde ad un desiderio di rassicurazione.
Ma, eccedendo, tutto questo determina quello che oserei definire "il problema della delega".
Noi viviamo in una società nella quale la complessità, che imporrebbe ad ognuno di noi sforzi titanici, viene risolta delegando altri, che si sono specializzati in determinati "campi", ad assolvere determinate funzioni.
Lo scienziato, nel senso ampio del termine, è uno di questi.
Ciò determina, nell'uso eccessivo che ne facciamo, due ordini di problemi.
Il primo è la trasformazione della nostra auto-rappresentazione in quelli che Mongardini definisce gli "aventi diritto".
La delega perde il suo senso profondo di fiducia verso l'altro e si trasforma in una pretesa di diritto senza però includere, in questo movimento, il dovere e la responsabilità che dovremmo normalmente sentire gli uni verso gli altri.
Al delegante interessa solo che il risultato combaci con le proprie aspettative demandando al delegato la scelta di quale via o mezzo utilizzare per determinarlo (si pensi al caso del rapporto malato-medico).
Questa modalità, normalmente presente nella maggior parte degli atti della nostra vita, finisce per donare, paradossalmente, maggior potere al delegato.
Si viene a creare una scissione sempre più profonda fra i pochi che "sanno" e i tanti che "non sanno" e la delega, oltre a non includere più al suo interno un senso profondo di fiducia, viene a trasformarsi in un atto obbligato e allo stesso tempo sfuggente.
E' qui si apre il secondo problema forse ancor più tragico del primo.
Usando una terminologia maffesoliana, la Libido Sciendi (brama o sete di conoscenza), da sempre incline a unirsi o, nel peggiore dei casi, a subordinarsi alla Libido Dominandi (brama di potere e controllo - ben rappresentata nelle nostre società dal potere economico-finanziario), finisce per acquisire un'autonomia quasi assoluta e determinare, attraverso la Tecnica, il futuro del genere umano.
Ci troviamo a vivere tutti in quella Società del rischio lucidamente descritta da U. Beck.
Eppure è proprio nel cuore della "fisica delle particelle" che, in un certo senso, questo rischio era già stato preannunciato.
Nel 1927 il fisico tedesco Werner Heisenberg formulò il suo famoso principio di indeterminazione.
"Heisenberg osservò che, in base alla teoria dei quanti, non era possibile misurare con precisione sia la posizione sia la velocità di una particella, ma anzi, più precisa era la misura della prima, meno era quella della seconda". [1]
"Ciò significa che nè l'elettrone nè alcun altro oggetto atomico possiede proprietà intrinseche indipendenti dal suo ambiente. Le proprietà che esso manifesta dipenderanno dalla situazione sperimentale, ossia dall'apparecchiatura con cui è costretto a interagire.(...) Le particelle subatomiche, quindi, non sono "cose" ma interconnessioni fra "cose", e queste, a loro volta, sono interconnessioni fra altre "cose", e così via. (...) La mia decisione cosciente su come osservare, per esempio, un elettrone, determinerà in qualche misura la proprietà dell'elettrone. (...) Nella fisica atomica la netta divisione cartesiana fra spirito e materia, fra osservatore e osservato, non può più essere mantenuta. (...) I modelli che gli scienziati osservano in natura sono intimamente connessi con i modelli della loro mente; con i concetti, pensieri e valori. (...) Gli scienziati sono perciò responsabili delle loro ricerche non solo intellettualmente ma anche moralmente. (...) I risultati della meccanica quantistica e della teoria della relatività hanno dischiuso due vie molto diverse da seguire. Esse possono condurre, per esprimerci in termini estremi, al Buddha o alla Bomba, e sta a ciascuno di noi decidere quale via prendere".[2]
Tutto ciò ci riporta al punto dal quale siamo partiti.
Immaginare lo scienziato come un "semi-dio" che si spoglia di tutte le passioni, i sentimenti, le idee, le emozioni, le convinzioni e entra nel suo laboratorio pronto a rispecchiare fedelmente la realtà è una pura illusione.
La semplice nostra presenza determina, in una interconnessione infinita, il nostro mondo e le risposte che da esso possiamo avere.
Quindi, la prossima volta che i neutrini da Ginevra arriveranno al laboratorio del Gran Sasso (non attraverso un tunnel come credeva l'ex Ministro dell'Istruzione Gelmini!!) ricordiamoci che ad osservarlo, seppur attraverso macchine iper-tecnologiche, ci sarà soltanto e semplicemente un uomo come tutti noi.

[1] L'universo in un guscio di noce - Stephen Hawking - Ed. Oscar Mondadori
[2] Il punto di svolta - Fritjof Capra - Ed. Feltrinelli

giovedì 5 aprile 2012

Le parole e il linguaggio

"La decadenza della parola anticipa sempre quella della civiltà che ne abusa"

                                                                                 Massimo Grammellini [1]


"Noi che sappiamo ingannevole il nostro linguaggio, che non abbiamo mai risparmiato sforzi per raggiungere la patria del vero linguaggio, la dimora degli dèi, la Terra senza il Male, dove mai sarà ospitato un dio che sia solamente un dio, né un uomo che sia solamente un uomo, perchè nulla di ciò che esiste può essere detto secondo l'Uno"

                                                                                 dal Lamento degli Ultimi Uomini [2]


[1] La Stampa del 29/02/2012
[2] La tribù dei Guaranì si definiva "gli Ultimi Uomini" - tratto dal "La terra senza il male" di Umberto
     Galimberti - Ed. Feltrinelli

sabato 31 marzo 2012

L'impossibile

"Quando una cosa è impossibile e accade, non è un problema della cosa, è un problema del pensiero"

                                                                                                                  Fabio D'Andrea


Lezione di Sociologia Generale del 18/10/2011 - http://www.sociologica.it/

giovedì 15 marzo 2012

Etica dell'estetica

Nella ricerca del Censis su "I valori degli italiani", presentata il 13/03/2012, si legge che "il 70% degli italiani è convinto che vivere in un posto bello aiuta a diventare persone migliori. Crede quindi che ci sia un legame tra etica ed estetica...".
Il risultato di tale ricerca mi ha colpito per due ordini di motivi.
Il primo riguarda il legame tra etica ed estetica che riporta in evidenza il pensiero di Michel Maffesoli.
Il sociologo francese, nella sua capacità di osservare l'uomo e il suo ambiente sociale, già dagli anni '80 del secolo scorso aveva posto l'accento su temi, che allora potevano risultare eccentrci, ma che con il tempo sono divenuti di grande attualità (si pensi al tribalismo, al nomadismo, al radicamento dinamico ed, appunto, all'etica dell'estetica).
Già di per sè i termini utilizzati e coniati da Maffesoli denotano un'attenzione al "sentire", al "provare", non mostrandoci oggetti dai contorni nitidi incasellabili in ordini e gerarchie.
Infatti l'etica dell'estetica è, appunto, un venire in luce di valori etici che scaturiscono dalla condivisione di spazi, sentimenti, emozioni che, nutrendosi di semplice prossemia, finiscono per legarci gli uni agli altri in un modo etico donandoci un fondamento sul quale stabilire il "giusto".
Cercando di fare un esempio possiamo pensare al suono di un accordo di chitarra.
Seppur le 6 corde hanno diverse tensioni e tonalità il vibrare insieme, in un determinato modo e in un determinato momento di un brano, ci regalano un unico suono che non è solo bello ed armonico ma anche "giusto".
Urge qui precisare, inoltre, che siamo lontani dal significato che estetica ha assunto ai giorni nostri ma ci si rifà al significato originario quale conoscenza attraverso i sensi (V. Mele)  [1] tema trattato ampiamente anche da Simmel, che come Maffesoli, se non in modo ancora più subdolo, è stato volentieri snobbato dall'intellighentzia ufficiale.
Il secondo motivo nasce da un mio senso di frustazione nei confronti delle metodologie di ricerca empiriche su tematiche socio-economiche (anche se, come nel nostro caso,  condotte da prestigiosi Istituti come il Censis).
Non mi ha mai convinto il determinare atteggiamenti, pensieri, aspettative, desideri, comportamenti umani con indagini statistiche.
Ridurre il complesso per avere un'immagine del reale, anche se per certi versi inevitabile, alla lunga finisce esso stesso per determinare e costringere la stessa multiforme realtà in una determinata forma.
Inoltre, nella maggior parte dei casi, noi troviamo e scopriamo semplicemente quello che cerchiamo a riprova di ciò lo stesso Censis il 07/07/2011 aveva indetto una conferenza su "Gli italiani e la bellezza" per poi scoprire, nella ricerca, che il 70% degli stessi crede in un legame tra etica ed estetica.
Volendo, però, non eccedere in un'aspra critica, prendo per buona questa tendenza emersa, che ad osservatori attenti come Maffesoli era già risultata evidente da anni, con la speranza che, come purtroppo spesso accade, l'incasellarla in una percentuale statistica e il volerla definire con strumenti di una ragione astratta, non finisca per convogliarne gli effetti in nuovi argini di "ordine" e "potere".

[1] Presentazione del saggio di Simmel Estetica Sociologica in Leggere Simmel a cura di Antonio De Simone - Ed. Quattroventi

domenica 12 febbraio 2012

I "perchè" dei bambini

Ascoltando la lezione di Sociologia del prof. D'Andrea sulla Cultura [1], nel parlare di cultura-ambiente quale cultura nella quale nasciamo e in particolare nella quale avvengono i processi di socializzazione primaria, mi è venuta alla mente la tipica scena di quando un bambino ti chiede il perchè di un gesto, di una parola, di un comportamento, di un pensiero.
Noi esseri umani siamo immersi in un "universo culturale che produciamo e riproduciamo continuamente" (A. Touraine).
"Siamo esseri culturali dotati della capacità e della volontà di assumere consapevolmente posizione nei confronti del mondo e di attribuirgli un senso" (M. Weber)
Ma la "consapevolezza", di cui parla Weber, si trasfigura drasticamente nel nostro vivere quotidiano e ci ritroviamo in un "ovvio", un "senso comune" che ci avvolge rendendo quasi nulla la parte creativa lasciandoci, soprattutto nella situazione attuale, un senso di condizionamento e di normativo che ci opprime.
D'altronde è complicato renderci conto della "fase creativa" essendo tutto immerso un un circolo dove spinte conservative e innovative si susseguono e si condizionano vicendevolmente in un flusso difficilmente percepibile.
Quella che possiamo definire "cultura oggettiva" assume un "tono di naturalità" (P. Jedlowski) difficilmente scardinabile.
Eppure un momento nel quale, con estrena naturalezza, veniamo spinti in una specie di fortunosa sospensione di questo flusso è proprio quando un bambino ti chiede il "perchè" delle cose.
Quell'ingenua domanda, su cose per noi ovvie e scontate, ci pone in una situazione di imbarazzo dove possiamo scorgere, con stupore, la natura prettamente umana,quindi relativa e mutevole, dei sensi e dei significati di oggetti, atti, parole, regole e valori.
E' inutile nasconderlo, ci sono occasioni nelle quali la situazione può divenire snervante e cerchiamo di chiuderla nel minor tempo possibile in mille modi diversi.
In fondo quel "perchè", a volte ripetuto più volte come una filastrocca, non cerca semplicemente di capire alcune cose ma è come se stesse a rappresentare uno scarto fra un mondo in potenza, rappresentato dal bambino, e il mondo-frammenti dell'adulto.
Quel "perchè" rappresenta una porta che il bambino varca, spinto dalla curiosità, dal bisogno di imitare, per "assumere consapevolmente posizione nei confronti del mondo e attribuirgli un senso".
Ma quella stessa porta non viene mai chiusa definitivamente e quindi anche in età adulta, in rari casi, possiamo ritrovarci a varcarla in un movimento a spirale che ci riporta, per un breve istante, in quel mondo in potenza perpetuamente presente anche se difficilmente percepibile nel nostro esistere quotidiano.
Qui vengono a decadere la logica, la razionalità, il principio di causa-effetto, la non contraddizione.
D'altronde, se guardiamo bene gli occhi del bimbo quando accetta una nostra risposta, in essi non vediamo semplicemente un convincimento logico, razionale, ma quasi, mi spingo a dire, un atto di "fede", profondo e semplice allo stesso tempo, nell'altro.
Una "fede", una "fiducia" che permea, come un collante, tutti noi anche in momenti come quello attuale dove tutto sembrerebbe evidenziare solo una conflittualità perpetua e autodistruttiva.
Voglio terminare questo post proponendovi un brevissimo racconto, scritto anni addietro, che intitolai Samuele.
"Quando all'età di quattro anni riprodussi, con i miei bei pastelli, la "Notte stellata" di Van Gogh, i miei genitori rimasero colpiti ed esterefatti.
Mio padre portò quel disegno in ufficio e andò a lavoro, non so per quanto tempo, solo per mostrare a clienti e colleghi l'opera d'arte del suo piccolo Samuele.
I miei pensarono che sarei diventato un'artista, un grand pittore.
Per loro sicuramente in me covava il genio dell'arte e per giorni e mesi mi spiarono ogni volta che con i miei pastelli scarabbochiavo sui fogli.
Rimasero, però, molto delusi dal vedere le mie belle casette dal tetto squadrato, le belle nuvolette, il bel sole con i suoi grandi raggi gialli, i tanti animaletti buffi e i bei fiori.
La mia "Notte stellata" non lasciò mai l'ufficio di mio padre che smise, però, di fare da cicerone nella sua personale galleria d'arte dove in pianta stabile veniva esposta l'unica ed incommensurabile opera del figlio.
Forse tenne con se quel disegno non solo per affetto ma anche perchè gli ricordava la possibilità di un sogno purtroppo svanito.
Ricordando quell'episodio ho sempre pensato che l'animo di un bambino è la cosa più vicina alla Bellezza ed è così pura da saper leggere le emozioni e le sensazioni senza doverle filtrare attraverso gli accadimenti della vita che finiscono per rimpicciolire e ridimensionare l'immensità dell'essere umano.
L'essere artista non è altro che un'immane lotta per ritornare, a volte solo per un attimo, a quello stato primordiale dove tutte le cose hanno un proprio "essere".
Sono sicuro che a quattro anni presi i miei pastelli e riprodussi la "Notte stellata" solo perchè era bello, solo perchè provai il primordiale istinto dell'emozione e della sensazione di Bellezza.
Non ero io un grande artista o diverso dagli altri bambini, ma il pittore ad essere diventato, per un istante eterno, un bambino come me."


[1] Lezione di Sociologia Generale del 22/11/2011 - http://www.sociologica.it/

domenica 29 gennaio 2012

Lo strano caso del dottor Vladimiro Colloca

Da settimane sui quotidiani, nei Tg, nei programmi di approfondimento, sul web si è moltiplicata esponenzialmente l'attenzione ai furbi, i corrotti, gli evasori.
Improvvisamente, bombardati dai mezzi di informazione, ci si indigna per tutte le ruberie da decenni, per non dire secoli, perpetrate dall'uomo sull'uomo.
Tutti ci scopriamo cittadini onesti e integerrimi e per tale motivo ci arroghiamo il diritto di giudicare e condannare.
Siamo attenti a tutte le notizie che riguardano i furbi e i corrotti per scagliarci contro questa disonestà che sta cancellando la "vocazione naturale" alla vita civile di tutti noi.
Come spesso accade in questi momenti si riapre la "caccia alle streghe" perpetrata in salsa moderna attraverso i media.
Anche il sito dell'Ansa, naturalmente, partecipa attivamente a questa nuova caccia.
Da qualche settimana ha inaugurato una nuova rubrica denominanta "L'Italia dei furbetti".
Il 17 gennaio riportava la storia del dottor Vladimiro Colloca.
Eccome alcuni stralci:
"Milano - Centinaia di anziani con problemi cardiaci del quartiere Niguarda, a Milano, avevano scelto lui soprattutto per due motivi: andava a visitarli anche a casa,  cosa che pochi fanno, e per un controllo prendeva 30-40 euro, cifra molto bassa e fuori mercato rispetto agli altri specialisti. Peccato che Vladimiro Colloca, che passava per un cardiologo molto conosciuto in zona anche dai medici di famiglia che lo indicavano ai pazienti, non abbia mai nella sua vita conseguito la laurea in Medicina e non sia mai stato iscritto all'Albo dei medici.
L'uomo, 58 anni, ha alle spalle dieci anni passati alla Facoltà di Medicina ma senza mai laurearsi (...)
nonostante non abbia mai avuto nemmeno un pezzo di carta per giustificare la sua professione, Colloca è riuscito ad esercitare abusivamente come specialista per 30 anni, dal 1982, fino a che sabato scorso una segnalazione anonima ha raggiunto i carabinieri (...) i militari l'hanno subito verificata (...) e ora è indagato per esercizio abusivo della professione medica e false certificazioni (...) gli inquirenti hanno spiegato che è opportuno che tutti i pazienti che sono stati visitati da Colloca si rivolgano ai carabinieri (...) perchè si sono illusi di essere curati da uno specialista e potrebbero esserci rischi per la loro salute e la necessità di veri controlli medici."
La storia del dottor Colloca (permettetemi di chiamarlo dottore) mi ha fatto motlo riflettere.
Ho immaginato le schiere di persone (mezzo quartiere) che si sono rivolte a lui, agli anziani che avevano trovato un dottore che andava a visitarli fino a casa, ai consigli, agli esami, all'attenzione che avrà rivolto ai suoi assistiti visto che veniva consigliato dai medici di famiglia, all'onorario "fuori mercato" che chiedeva.
Ma lui non poteva, non aveva il "pezzo di carta" e quindi ora dovrà vedersela con la Legge e per di più il suo nome viene inserito nella lunga schiera di furbi che i media, diligentemente, aggiorna quotidianamente per tutti noi.
Sarà che a me questo clima non piace e non mi è mai piaciuta l'ipocrisia tipica dell'uomo della quale (nessuno si offenda) ma noi italiani siamo molto bravi ad esercitarla ma la storia del dottor Colloca serve a poco a darci la nostra dose quotidiana di indignazione.
Personalmente non sono indignato e spero tanto che tutti i pazienti del dottore rispondano all'appello dei carabinieri e si presentino in caserma, forse, solo in questo modo, si scopriranno tante persone curate ed aiutate da questo non-dottore.


sabato 14 gennaio 2012

Scalfiture e incrinature

Ernest Hyde

La mia mente era uno specchio:
vedeva ciò che vedeva, sapeva ciò che sapeva.
In gioventù la mia mente fu come uno specchio
d'un'auto in rapida corsa,
che coglie e subito disperde i tratti del paesaggio.
Poi col tempo
sullo specchio si produssero profonde scalfiture,
tra cui s'insinuava il mondo esterno,
e affiorava il mio io più segreto.
E' questa la nascita dell'anima nel dolore,
una nascita fatta di guadagni e di perdite.
La mente vede il mondo come cosa separata,
e l'anima ne fa un tutt'uno con se stessa.
Uno specchio graffiato non riflette immagini
e questo è il silenzio della saggezza.

(Antologia di Spoon Rever di Edgar Lee Masters)


Ester

I suoi occhi scrutavano la sua anima appesa ad un filo. Entravano dentro di lei sondando le profondità più scure del suo io. Andando giù…sempre più giù.
Quel volto, riflesso nello specchio, le apparteneva. Era la porta del suo essere. Eppure sapeva che una semplice incrinatura dello specchio, non percettibile all’occhio umano, avrebbe distorto il suo cammino, la sua discesa. Sapeva che non era in quel volto riflesso la spiegazione di tutto e sapeva benissimo che quello che cercava era dentro di sè.
Avrebbe dovuto guardare dentro di sè e non attraverso la sua immagine riflessa.

(brano tratto da un mio racconto mai terminato)

Scrissi il capitolo su "Ester", parte di un racconto mai terminato, circa 10 anni fa mentre ho letto, per la prima volta, la poesia di Masters da qualche mese.
E' strano come parole, immagini, sensazioni, simboli, suoni, si ripetano all'infinito accomunando uomini prescindendo da epoche, culture, latitutini e longitudini.
Ci sono istanti in cui Tempo e Spazio sembrano non significare nulla.
Mi è capitato spesso, come credo ad ognuno di voi, di ritrovare fra le pagine di un libro, nel testo di una canzone, nelle parole di un amico, di un estranio, pensieri e sensazioni che sembravano intime e profondamente personali ma che invece, con piccole sfumature diverse, vibrano nella vita di tutti noi.
E' una sensazione strana ma potentissima.
Sembra di essere immersi in una narrazione infinita che ci rende partecipi di un Tutto.
Il tema dello Specchio ( vedi post del 09 agosto 2011) è sempre ritornato costantemente nella mia vita.
Fior di scienziati (psicologi, sociologi, antropologi, filosofi, medici) potrebbero dare mille spiegazioni a questa mia inclinazione ma, come ho anche scritto in altri post, non mi sono mai interessate le risposte alle mille domande della vita ma il cammino e la danza che ti porta e ti fa vibrare fra le sensazioni e le immagini dell'esistere di cui la risposta non è altro che una impercettibile pausa in questo incessante flusso.