domenica 30 ottobre 2011

Il ritorno del popolo



                                                                                       "Quando passa il gran signore,
                                                                                         il saggio villico fa un profondo
                                                                                         inchino e silenziosamente
                                                                                         scorreggia"
                                                                                         Proverbio etiope [1]

                                                                                        "E poì la gente,
                                                                                          perchè è la gente che fa la storia, 
                                                                                         quando si tratta di scegliere e di andare,
                                                                                         te la trovi con gli occhi aperti,
                                                                                         che sanno benissimo che cosa
                                                                                         fare"
                                                                                         La storia - Francesco De Gregori




"Il re è nudo" e quel che è peggio, per lui, parafrasando una famosa battuta di Woody Allen (Dio è morto e anche io oggi non mi sento tanto bene), il re non gode di buona salute.
D'altronde non poteva essere altrimenti visto che il re, il principe, il presidente, il capo, il politico non sono altro che figure laicizzate del "Potere divino".
Ora bisogna capire se morirà di morte naturale o se ci sarà qualcuno che avrà il coraggio di staccare la spina.
Se guardiamo alle epoche storiche passate c'è sempre stato chi ha avuto tale coraggio: Il Popolo.
In questi nostri tempi tragici vi è il ritorno, appunto, del popolo.
Esso è sempre stato visto con sdegno e sospetto da intellettuali, accademici, burocrati, politici "per due ragioni essenziali. Da una parte perchè il popolo si preoccupa senza vergogna di quella che è la materialità della vita; di tutto ciò che è prossimo, potremmo dire, in opposizione all'ideale e al differimento del piacere. Dall'altra perchè sfugge al gran fantasma del numero, della misura, del concetto, che è da sempre quello della procedura teorica".(Maffesoli) [2]
In ogni nostro gesto, parola, pensiero, per quanto razionalmente finalizzato, c'è sempre un'eccedenza, una parte che sfugge a qualsiasi comprensione e che nel suo vibrare ci permette di percepirla, intuirla ma mai concettualizzarla (in un certo senso, in essa, possiamo vedere un'altra forma dei residui teorizzati da Vilfredo Pareto).
Si tratta di un'energia arcaica, primordiale, una potenza, una fonte alla quale si ritorna per rivitalizzarsi.
E' scritto nell'Ecclesiaste: "I fiumi ritornano alla sorgente per scorrere di nuovo".
Il popolo, o quello che definiamo con questo termine, nel bene o nel male, o come direbbe Nietzsche al di là dal bene e dal male, rappresenta, a mio parere, questa eccedenza.
Le effervescenze che si vivono quotidianamente attraverso la musica, lo sport, il ritorno del sacro, l'attenzione alla natura (ecologia), l'attenzione al nostro corpo sono tutte forme di neotribalismo (Maffesoli) che si coagulano nella massa, nel popolo.
Troppo facilmente, a mio parere, sono tacciate di effimero o di vuoto, come accade, ad esempio, alla moda ( il testo di Simmel La moda rappresenta bene come essa non sia solo una forma di conformismo ma una tensione che permette, allo stesso tempo,  al soggetto di esprimersi fondendosi ad un gruppo e distingursene individualmente).
Ripeto c'è sempre un'eccedenza, quello che può variare è il suo manifestarsi, il suo essere ombra o luce.
Le ultime manifestazioni degli indignados in tutto il mondo rappresentano bene questa energia popolare.
Si badi bene, se domandi ad uno dei manifestanti perchè protesta ti risponderà per il lavoro, contro la precarietà, per la democrazia, contro la politica, per i diritti e tantissime altre cose giustissime.
Ma se chiedi loro, e se lo chiediamo a noi stessi, che cosa è la democrazia, la politica, il lavoro, i diritti le risposte saranno sicuramente varie e balbettanti.
Giorgio Gaber scrive, con fredda ironia, nel testo "La democrazia": "Io, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita".
Questa, però, non è una debolezza.

sabato 29 ottobre 2011

Storie di zingari



Scena tipica da fermata al semaforo rosso.
Un bimbo di 7-8 anni si avvicina alla macchina per chiedere qualche spiccio.
Mia moglie, come sempre fà, gli dona un euro.
Il bimbo lo guarda ed esclama: "Un euro!!!" poi si fruga nelle tasche e porge a mia moglie qualche moneta dicendo: "Il resto".
Naturalmente non l'abbiamo preso e ci siamo guardati stupiti e increduli pieni, ancora, della felicità degli occhi del piccolo.
Che strano mondo!!
Il resto, il superfluo te lo restituiscono chi ha poco o niente e non chi ha tutto.....

lunedì 17 ottobre 2011

15 ottobre 2011

Il romanzo delle stragi

"Io so.
 Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di golpes istituitasi a sistema di protezione del potere). 
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. 
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. 
Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di golpes, sia i neofascisti autori materiali delle prime stragi, sia, infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti. 
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969), e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974). 
Io so i nomi del gruppo di potenti che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei colonnelli greci e della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il 1968, e, in seguito, sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del referendum. 
Io so i nomi di coloro che, tra una messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neofascisti, anzi neonazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine ai criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). 
(…)
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killers e sicari. 
Io so tutti questi nomi e so tutti questi fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che rimette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il "progetto di romanzo" sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il 1968 non è poi così difficile.
Tale verità - lo si sente con assoluta precisione - sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio. (…)
Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi. A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.
Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi. Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi - proprio per il modo in cui è fatto - dalla possibilità di avere prove ed indizi.
Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi.
Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi.
Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia. 
All'intellettuale - profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana - si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici.
Se egli vien meno a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito (come se non si aspettasse altro che questo) al "tradimento dei chierici". Gridare al "tradimento dei chierici" è un alibi e una gratificazione per i politici e per i servi del potere.
Ma non esiste solo il potere: esiste anche un'opposizione al potere. 
(…)
La divisione del paese in due paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l'altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività.
Inoltre, concepita così come io l'ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un Paese nel Paese, l'opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere.
Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch'essi come uomini di potere.
Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch'essi hanno deferito all'intellettuale un mandato stabilito da loro. E, se l'intellettuale viene meno a questo mandato - puramente morale e ideologico - ecco che è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore.
Ora, perché neanche gli uomini politici dell'opposizione, se hanno - come probabilmente hanno - prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpes e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono - a differenza di quanto farebbe un intellettuale - verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch'essi mettono al corrente di prove e indizi l'intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com'è del resto normale, data l'oggettiva situazione di fatto.
L'intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento.
Lo so bene che non è il caso - in questo particolare momento della storia italiana - di fare pubblicamente una mozione di sfiducia contro l'intera classe politica. Non è diplomatico, non è opportuno. 
Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che - quando può e come può - l'impotente intellettuale è tenuto a servire.
Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso non pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l'intera classe politica italiana.
E lo faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi "formali" della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista.
Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico - non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento - deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi.
Probabilmente - se il potere americano lo consentirà - magari decidendo "diplomaticamente" di concedere a un'altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon - questi nomi prima o poi saranno detti. Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori). Questo sarebbe in definitiva il vero colpo di Stato."

La violenza scatenata nella manifestazione di Roma ha lasciato in tutti noi un grande senso di amarezza e tristezza.
Parlandone in famiglia ho ripensato all'ormai famoso articolo, publicato sul Corriere della Sera il  14 novembre del 1974 col titolo " Che cos'è questo golpe?", di Pier Paolo Pasolini conosciuto come "Il romanzo delle stragi" (del quale ho riproposto un estratto).
Anche se inquadrato in un momento storico particolare, penso che le parole dell'immenso intellettuale vadano ben oltre tale momento.
La storia repubblicana del nostro Paese è costellata di pratiche segrete e occulte che tendevano, con tutti i mezzi possibili, alla conservazione del "Potere" raggruppando sotto tale vessillo organizzazioni e uomini che, formalmente, sarebbero dovuti essere agli antipodi e di come questi violenti accadimenti abbiamo avuto una possibile verità storica, quasi mai processuale, dopo decenni e grazie al lavoro di pochi temerari (giornalisti, magistrati, intellettuali, politici).
Quindi cari giovani, cari anziani, cari lavoratori, cari disoccupati, cari precari, care Forze dell'ordine, non dimenticate mai, in qualunque manifestazione o nell'assolvimento di vostri doveri, le parole di Pasolini e, soprattutto, non dimenticate mai la "particolare" situazione in cui ha vissuto e, credo, viva il nostro Paese.
Forse la mia è una forzatura...forse è un'esagerazione....forse è la solita visione complottista....forse...forse...forse...


Povera patria
(Battiato)
Povera patria!
Schiacciata dagli abusi del potere
di gente infame, che non sa cos'è il pudore,
si credono potenti e gli va bene
quello che fanno;
e tutto gli appartiene.
Tra i governanti,
quanti perfetti e inutili buffoni!
Questo paese è devastato dal dolore...
ma non vi danno un po' di dispiacere
quei corpi in terra senza più calore?
Non cambierà, non cambierà,
no cambierà, forse cambierà.
Ma come scusare
le iene negli stadi e quelle dei giornali?
Nel fango affonda lo stivale dei maiali.
Me ne vergogno un poco, e mi fa male
vedere un uomo come un animale.
Non cambierà, non cambierà,
sì che cambierà, vedrai che cambierà.
Voglio sperare
che il mondo torni a quote più normali
che possa contemplare il cielo e i fiori,
che non si parli più di dittature
se avremo ancora un po' da vivere...
La primavera intanto tarda ad arrivare.

giovedì 13 ottobre 2011

L'ingranaggio

 











L'ingranaggio
(Gaber-Luporini)


Un ingranaggio.
Un ingranaggio.

Un ingranaggio così assurdo e complicato
così perfetto e travolgente.
Un ingranaggio fatto di ruote misteriose
così spietato e massacrante.
Un ingranaggio come un mostro sempre in modo
che macina le cose, che macina la gente
sì, sì anch’io!
Sì, anch’io…
Anch'io devo andare sempre avanti
senza smettere un momento
devo andare sempre avanti
e lavorare, lavorare, lavorare
e continuare a lavorare, lavorare, lavorare
e non fermarsi mai.

E non fermarsi mai
e non fermarsi mai
e avere dentro il senso
che non sei più vivo
e faticare tanto
trovarsi con un vecchio amico
e non saper che dire.
Capire che non ho più tempo
per il riso e il pianto
saperlo e non aver la forza
di ricominciare.

Non è che mi manchi la voglia
o mi manchi il coraggio
è che ormai son dentro
nell'ingranaggio.

Ricordo quelle discussioni
piene di passione
di quando facevamo tardi
dentro a un'osteria.
L'amore, l'arte, la coscienza
la rivoluzione
sicuri di trovar la forza
per andare via.

Non è che mi manchi la voglia
o mi manchi il coraggio
è che ormai son dentro
nell'ingranaggio.

L'ingranaggio.
Questo ingranaggio così assurdo e complicato
così perfetto e travolgente.
Quest'ingranaggio fatto di ruote misteriose
così spietato e massacrante.
Quest'ingranaggio come un mostro sempre in moto
che macina le cose, che macina la gente
sì, anch'io, devo andare sempre avanti,
senza smettere un momento
devo andare sempre avanti
e lavorare, lavorare, lavorare
e continuare a lavorare, lavorare, lavorare
e non fermarsi mai!

E non fermarsi mai
e non fermarsi mai
e ritornare a casa
silenzioso e stanco
senza niente dentro
appena il cenno di un sorriso
senza convinzione.
La solita carezza al figlio
che ti viene incontro
mangiare e poi vedere il film
alla televisione.

Non è che mi manchi la voglia
o mi manchi il coraggio
è che ormai son dentro
nell'ingranaggio…

Sono anni che considero l'opera di Giorgio Gaber il più  pregnante e lucido trattato socio-antropologico dell'Italia dagli anni '60 agli anni '90.
Ascoltando e rivedendo i suoi spettacoli, il suo "Teatro-canzone", nelle sue parole, nella sua mimica, nella sua musica vedi passare dinanzi a te gli uomini che hanno vissuto i tempi che egli racconta.
Ma non si tratta solo di un semplice racconto anzi, attraverso il suo corpo smilzo, la sua faccia che di per sè è una maschera teatrale perfetta, quegli uomini sono stati portati in carne ed ossa sui palchi che Gaber ha calcato.
La sua opera è il tipico esempio di quanto la forma d'arte, qualsiasi essa sia,  può rappresentare nel miglior modo possibile l'esistenza umana.
Questo brano, incluso nell'album del 1972 Dialogo fra un impiegato e un non sò, mi è ritornato in mente rileggendo il saggio dell'economista Georgescu-Roegen L'economia politica come estensione della biologia [1], testo tratto da una conferenza tenuta dall'autore nel 1974 all'Università di Firenze.
Scrive, in apertura, Georgescu-Roegen:
"L'uomo, nella sua continua lotta per comprendere che cosa è e come funziona la natura, ha sempre cercato sostegno in qualche particolare fede epistemologica, qualche particolare dogma scientifico. Una successione di dogmi scientifici ha contrassegnato l'evoluzione del pensiero umano con periodi di mode epistemologiche e continuerà così anche in futuro. In ciascuno di questi periodi, gli scienziati non solo si sono sforzati di accumulare prove a favore del dogma dominante, ma lo hanno anche considerato servilmente come l'unica fonte di fertile ispirazione. Un esempio illuminante di questo culto per i dogmi è dato dalla scienza economica, che è giunta a maturazione proprio nel momento in cui il dogma meccanicistico si trovava al suo apogeo".
 In queste parole è ben chiaro il punto di attacco dal quale Georgescu-Roegen svilupperà la sua Bioeconomia, la netta antitesi con il pensiero economico classico e la sua fede nel meccanicismo e nelle teorizzazioni matematiche che, come ben afferma il prof. Bonaiuti nella prefazione al libro, continua a sopravvivere al giorno d'oggi in virtù degli stretti legami con l'ideologia neoliberista, e il recupero del pensiero biologico coniugato alle straordinarie scoperte in termodinamica.
Cercherò, per quanto mi sia possibile, di chiarire il nucleo della teoria bioeconomica.
Il pensiero di Georgescu-Roegen fu fortemente influenzato, come egli stesso chiaramente ammette nei suoi scritti, da un affermazione di Alfred Marshall secondo il quale il metodo più adatto, per comprendere i processi economici, è "più lontano da quello fisico (meccanico) e più affine a quello biologico", e dall'osservazione di Alfred Lotka secondo la quale gli esseri umani sono sostenuti da due tipi di organi: gli organi endosomatici, di cui essi sono dotati dalla nascita, e gli organi esosomatici, cioè quelli da loro prodotti e utilizzati.
Questi strumenti esosomatici sono soggetti a una legge ereditaria affine a quella di tipo biologico in quanto ogni generazione successiva erediterà la struttura esosomatica della precedente e, inoltre, l'estendersi dell'evoluzione biologica all'evoluzione esosomatica ha dato all'uomo la padronanza della terra.
Ma questa evoluzione esosomatica ha spinto l'uomo a vivere in società sempre più organizzate in quanto la produzione di tali strumenti non poteva essere più gestita dai membri di una piccola comunità (famiglia, clan,tribù) e da ciò, secondo Georgescu-Roegen, nasce anche il fattore di divisione sociale fra controllori e controllati, fra coloro che possiedono tali strumenti e coloro che non ne hanno.
Mi preme qui aggiungere che questa evoluzione esosomatica ha naturalmente una sua ripercussione sulla nostra esistenza ancora più profonda.
Gli oggetti che ci circondano invadono anche la sfera immaginale, emozionale, psichica ridefinendo le  percezioni e le rappresentazioni sia di noi stessi sia dell’Altro (qui inteso in modo estensivo anche come natura e come oggetti e strumenti creati dall’uomo).
E’ essenziale, secondo me, soffermarci su questo.